Ci sono critici e critici: quelli che arrivano a stroncare gli artisti e quelli, come me, che cercano di fare qualcos’altro. Siete curiosi di sapere cosa? Allora continuate a leggere il post.
Con una premessa. Visto l’involontario clamore suscitato dal post “Antidoto contro gli artisti presuntuosi e logorroici”, ho pensato di proporvi una riflessione sull’alter ego del pittore, il critico, figura chiave che nel corso della storia dell’arte ha avuto e ha un ruolo cruciale.
Il primo “critico d’arte” della storia delle Beaux-Art è, a mio avviso, Giorgio Vasari, che nel suo monumentale trattato dal titolo Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori, uscito per la prima volta nel 1550 e, nell’edizione definitiva – ampiamente arricchita – nel 1568, propone una serie di biografie che si avvalgono di notizie di prima mano che, unito allo scrupolo dell’autore e ai suoi folgoranti giudizi, risulta ancora oggi un caposaldo della letteratura del settore.
Fra i critici più “famosi”, se così possiamo dire, spicca, fra gli altri, il francese Louis Vauxcelles che, visitando una collettiva di pittori al Salon d’Automne di Parigi del 1905 che riuniva alcuni autori che facevano capo all’atelier di Gustave Moreau, definì la sala espositiva una “cage aux fauves” ovvero una “gabbia delle belve” per l’uso di colori estremamente accesi e dalla pigmentazione pura. Questa definizione, tutt’altro che lusinghiera, diede il nome al uno dei movimenti artisti più amati e apprezzati della storia dell’arte moderna, i Fauves, che ha in Henri Matisse e André Derain gli esponenti di spicco.
Venendo ai nostri giorni, diversi sono sono i critici che anche il grande pubblico conosce e che non hanno di certo bisogno di presentazione che, seppure differenti, con la profondità del loro pensiero e il loro carisma, hanno sanno portare lo spettatore, seppure in modi differenti, “dentro” l’immagine artistica.
Ma in questo post vorrei parlarvi di due diverse “scuole critiche” che hanno caratterizzato la storia dell’arte.
Anzitutto quella dei critici che in maniera spietata e senza guardare in faccia nessuno, si permettevano di muovere obiezioni e dure valutazioni nei riguardi di mostre che non ritenevano qualitativamente valide. Ricordo che, quando da giovanissimo frequentavo un circolo di pittori e si svolgeva un’inaugurazione, appena varcava la soglia un particolare critico, tutti smettevano di parlare. Il silenzio piombava nella sala espositiva. Il presidente dell’associazione, con voce tremante, presentava l’espositore al critico, augurandosi che l’indomani uscisse una recensione positiva e non una stroncatura.
Sinceramente non ho mai compreso fino in fondo questo orientamento.
Voglio dire, il diritto di critica è sacrosanto, ma qual è il criterio universale per stabilire cosa è e cosa non è meritevole di una recensione positiva? In passato il bello e il perfetto nell’arte erano regolati in base ai canoni della classicità, ma poi? Con le avanguardie, e anche prima, i canoni artistico-estetici sono radicalmente mutati. E a volte persino ribaltati.
Io sono, invece, di un’altra generazione di critici. Di quelli, per capirci, che più che guardare ad eventuali difetti tecnici in un’opera (questi sì, per l’arte figurativa tradizionale, facilmente individuabili, come errori, non voluti nella prospettiva o nelle proporzioni di una figura o di un arto), guardo, come mi ha insegnato Dino Cecconi, amico, gallerista e cultore dell’arte, recentemente scomparso, ciò che “c’è di buono” – le parole sono proprio di Dino – in un’opera, ovvero ciò che può emozionare.
Credo che un critico debba proprio fare questo: aiutare il fruitore di un’opera ad accostarla nella giusta angolazione, quella, per capirci, che va al di là di una semplice valutazione “a pelle” che si risolve in frasi come “mi piace”, “è bella”…
AUTORE: SIMONE FAPPANNI © RIPRODUZIONE DEL TESTO RISERVATA