ARTEMISIA GENTILESCHI: QUANDO L’ARTE È PIÙ FORTE DELLA VIOLENZA

Artemisia Gentileschi Autoritratto come allegoria della Pittura
(Royal Collection Windsor, credit: Wikipedia)

MILANO. Quando penso all’arte al femminile penso subito ad Artemisia Gentileschi. Sia per la sua determinazione nel voler essere pittrice a tutti costi, anche contro il destino avverso che l’ha vista vittima di uno stupro rimasto, in definitiva, impunito, dato che il colpevole se l’è cavata con poco, sia per la sua voglia di mostrare al mondo, a cominciare dall’Autoritratto come allegoria della Pittura (1638-1639, Royal Collection Windsor), ciò che era la sua vocazione profonda: creare emozioni.

Ecco perchè Artemisia rappresenta la “forza della donna” – prendendo a prestito il titolo della tradizionale collettiva dei Soci dell’Acav, che si tiene da tanti anni in quel di Codogno. Artemisia come simbolo di quella volontà che è solo delle donne. E che va ricordata sempre. Ancora di più, se possibile, oggi, che è La Giornata internazionale dei diritti della donna.

La mia cara amica, e acuta critica d’arte, Elena Gavazzi, in un libro che abbiamo scritto insieme qualche anno fa, ha sottolineato come «la sua pittura si avvicina anche all’idealismo della scuola toscana e al realismo romano. Per quanto riguarda le sue creazioni ricordiamo anzitutto Susanna e i vecchioni (1610, Collezione Graf von Schönborn, Pommersfelden) dove è presente la disciplina del disegno anatomico, una ben dosata impostazione di luce ed ombra, una cromia delicata sapientemente accostata.

Artemisia Gentileschi, Susanna e i vecchioni
(1610, Collezione Graf von Schönborn, Pommersfelden, credit: Wikipedia)

Per le tonalità e per la posizione delle figure, questo quadro ricorda gli affreschi di Michelangelo della Cappella Sistina. Il nudo femminile è spesso utilizzato da Artemisia e nelle sue tele si può apprezzare il realismo dei corpi, inoltre le pose scelte valorizzano la tensione psicologica delle donne ritratte. Le opere più espressive vengono eseguite fra il 1620 e il 1630, quando raggiunge una maturità psicologica e una capacità pittorica tale da divenire un’artista raffinata.

È in questo periodo che dipinge Giuditta che decapita Oloferne (1620, Uffizi, Firenze) e per comporre questa tela sembra si sia ispirata alla Giuditta caravaggesca di casa Coppi. La caratteristica della scena è un realismo esasperato quasi cruento e una notevole intensità drammatica.

Le figure, dall’atteggiamento vigoroso, emergono da uno sfondo scuro; i panneggi con le loro pieghe movimentano l’episodio. L’interpretazione è originale e personale: è importante l’effetto chiaroscurale che propone maggior risalto alla narrazione pittorica. Alcuni studiosi affermano che è alla Gentileschi che si deve l’uso del caravaggismo a Firenze.

Nel periodo fiorentino Artemisia si interessa anche alla pittura di maniera. Questi elementi sono presenti nell’opera intitolata Giuditta e la fantesca (1613 -1614, Palazzo Pitti, Firenze).

La semplicità del disegno, i colori freddi e la prepotenza delle figure femminili indirizzano questo quadro verso un’ispirazione caravaggesca. Il lavoro ricorda anche uno sguardo al gusto fiorentino: per la prima volta Artemisia fa indossare ai suoi personaggi abiti suntuosi e gioielli preziosi. La Maddalena penitente (1615 – 1616, Palazzo Pitti, Firenze) ricorda invece, per la posa sofisticata e i dettagli, il modus operandi del Bronzino…».[ii]

AUTORE: SIMONE FAPPANNI


NOTA. [ii] E. Gavazzi, Artiste italiane del Cinquecento e del Seicento, in S. Fappanni (a cura di), Nel sentiero di Artemisia, Immaginaria ed., Cremona 2014, pp. 8-9.