CIRCUS: LE OPERE SPERIMENTALI DI RODRIQUEZ AL CENTRO ARTE PERINI

Rodriquez, Circus (courtesy of the artist)

CASTELVETRO P.NO. «Da qualche tempo si parla, sempre più frequentemente, dell’uso dell’intelligenza artificiale per creare opere d’arte. Dopo l’iniziale, e per certi aspetti comprensibile scetticismo, questo nuovo strumento è entrato a pieno titolo fra quelli a disposizione di creativi che intendono sondare le infinite strade della sperimentazione.

Fra questi, un posto di sicuro primo piano si deve al veneto Gabriele Rodriquez».

Così il critico Simone Fappanni presenta la mostra personale dell’artista veneto che, dal 13 maggio al 1 giugno al Centro Arte Perini di Castelvetro Piacentino.

La personale, intitolata “Circus”, è espressamente dedicata al mondo circense alla figura del clown in modo particolare essendo uno fra i protagonisti di questo universo con i suoi tanti volti, ora allegri ora malinconici. 

Sono evidenti i richiami ai grandi maestri dell’arte Contemporanea e dell’arte moderna, ma Rodriquez possiede una cifra stilistica personalissima, assolutamente originale.

«L’Intelligenza Artificiale – spiega l’artista – crea immagini secondo dei comandi descrittivi e dettagliati proposti dall’autore. Esse possono essere modificate anche radicalmente o semplicemente accettate. Quindi l’intervento dell’artista diventa fondante perché senza le sue istruzioni la macchina non crea nulla. Pertanto il rapporto fra macchina e autore diventa un unicum imprescindibile.

Dunque, l’artista è tale a prescindere dallo strumento che usa, e il risultato finale deve avere come scopo ultimo quello di stupire il fruitore. Rasentando la blasfemia si può aggiungere che gli strumenti hanno un’importanza residuale, tutt’al più diventano delle abilità, è il concetto, l’idea che sovrasta».

Rodriquez vive a Verona. Già docente di materie aziendali, è dottore commercialista. Prestato alla fotografia, fin dal 1977, questa è diventata un’attività che via via si è rivelata più che una passione.

“Il mio percorso fotografico – afferma – parte da lontano nel tempo. Il primo rullino l’ho scattato nel 1977 con una Yashica Electro 35 GT. In tutti questi anni ho usato di tutto, Canon, Leica, Zenza Bronica, fino ad arrivare alla Linhof 10×12 che fa bella mostra di se nel mio studio (di commercialista non fotografico).
Ho fotografato di tutto, come dico nella mia biografia, ho fatto tutti i generi (quasi, non ho approfondito il
glamour). Mi piace viaggiare e quindi il reportage di viaggio mi ha comunque sempre occupato e con
soddisfazione personale. E tutt’ora non lo rinnego. Se vado in viaggio sono attrezzato e porto a casa un bel
documento.
Nel 2014, dopo un bellissimo reportage in India in B&W mi sono trovato svuotato da ogni stimolo, sono
arrivato al un punto dove la fotografia tradizionale non mi soddisfaceva più.
Mi mancava qualcosa che la fotografia tradizionale non riusciva a darmi. Nell’immediato non ho percepito
cosa fosse. Ho cominciato a vedere alcuni lavori al Circolo Fotografico che frequentavo, ancora molto fotografici ma che sicuramente si staccavano dalla massa (fra tutti Ivano Bolondi).
Ho cominciato a vedere qualche lavoro di alcuni autori americani o europei che usavano lo smartphone e le
sue applicazioni per “costruire” delle vere opere. In senso letterario veniva sottesa la fotografia figurativa a favore di una fotografia creativa ricostruita. Immagini riprese con il telefono, fuse tra di loro, svuotate dal
contesto originario in modo tale da significare qualcosa di completamente diverso. Avevo scoperto la
MobileArt.
A Verona ho conosciuto un amico, Giancarlo Beltrame, uno dei principali fautori in Italia della MobileArt e
appartenente ad un gruppo internazionale tutti accomunati nelle loro opere dall’uso esclusivo ed estremo
dell’iPhone e delle applicazioni fotografiche di parti terze.
Mi sono confrontato con quest’ultimo per capire la filosofia di questa “avanguardia fotografica”
(personalmente la considero tale) ed ho scoperto che già nel 2014 era stato proposto il primo International
Salon of Mobile Art presso il MART di Rovereto (TN) istituendone un premio con quasi 300 partecipanti da
tutto il mondo.
E’ stata una vera folgorazione, tenuto conto della mia passione per l’Arte contemporanea mondiale ma
soprattutto del ‘900 italiano, ho compreso a fondo quali fossero le potenzialità di questi strumenti. Sono un
assiduo frequentatore di Gallerie, Musei, e Biennali d’Arte e il percorso non poteva essere diverso.
La democraticità del mezzo (tutti abbiamo uno smartphone in tasca) e la possibilità di fare Arte mi hanno
trasmesso letteralmente un fuoco interiore, una specie di ansia da prestazione come a voler recuperare un
tempo perduto.
All’inizio non era però cosi semplice. Van bene i contenuti i quali sono frutto di una progettualità, di un
percorso mentale che matura anche in corso d’opera, ma le applicazioni e i relativi utilizzi sono molteplici e
tutti diversi per cui il flusso di lavoro diventa frenetico a seconda del risultato che si vuole ottenere e molto
veloce per timore di perdere il filo.
Il telefono o il tablet sono diventati delle “tele digitali” dove la penna capacitiva o le dita si muovevano sulla
loro superficie scontornando, tagliando, svuotando, riempiendo, dipingendo.
L’immagine originale (fatta rigorosamente con il telefono) si svuota del suo significato principale e ne assume
un altro completamente diverso. Questo era il fattore creativo di tutta l’attività. La fusione tra vari elementi,
anche diversi tra loro e la successiva trasformazione permetteva di ottenere risultati impensabili fino a 10
anni fa. Un estremo, una forzatura, un’esagerazione di Editor d’immagini, volutamente riconoscibili, usati con
il giusto gusto per conseguire risultati spesso strabilianti. Attenzione che non siamo nell’ambito della
DigitalArt in quanto l’immagine di partenza era ed è sempre uno o più scatti fotografici.
Un frammento di muro, di un quadro, di parole, di immagini diventano materia nel processo creativo. Come
ha citato Giancarlo Beltrame nella presentazione di una nostra mostra:
“Ossessioni mitigate o amplificate dalle “mani invisibili” dei calcoli matematici della macchina, una specie di
“inconscio tecnologico” (per riprendere la fortunata definizione coniata da Franco Vaccari fin dagli anni
Sessanta)”.
“Non è più fotografia, non è più grafica, nemmeno nella versione computerizzata, ma qualcosa di nuovo, che
si può ottenere solamente con quegli specifici strumenti, così come una volta servivano tele, pigmenti e
pennelli per dipingere o altre combinazioni di malta e colori per affrescare”.
E ancora:
“Come si intuisce sono in gran parte collage digitali. La tecnica del collage è stata usata dall’inizio del
Novecento da molte delle avanguardie che si sono succedute nel secolo breve, dal Futurismo al Dadaismo,
dal Surrealismo alla Pop Art, dal Décollage alla Neoavanguardia legata al Gruppo ’63. La nuova frontiera è
appunto la sua versione digitale, che si basa sull’utilizzo pienamente consapevole della intertestualità. Se è
vero che ormai tutte le storie sono già state scritte e che l’autore contemporaneo consciamente o
inconsciamente ne replica parti, richiami o citazioni tra le righe e gli interstizi dei propri testi, è altrettanto
vero che tutte le immagini sono già state dipinte, disegnate o scolpite. All’artista, allora, non resta che
confrontarsi con esse – grazie al flusso continuo che Internet consente -, assimilarle, interiorizzarle e farle
dialogare con i propri sogni e le proprie ossessioni, sino a riproporle come propria espressione”.
Ad agosto di quest’anno (2022) ho iniziato ad approcciare gli algoritmi dell’Intelligenza Artificiale prima con
un certo timore poi con grande soddisfazione. Togliamoci subito il dubbio: non siamo più nell’ambito della
fotografia. Non ci sono sensori ne ottiche ne tempi ne diaframmi. C’è solo una macchina (il PC), un portale
(le varie piattaforme Dall-E, MidJourney ecc) e un prompt di comandi che aspetta le istruzioni secondo un
linguaggio descrittivo convenzionale. L’Autore traduce la propria idea in un prompt, l’algoritmo esegue, qualche volta bene qualche volta male (MidJourney è alla versione Beta 4 e non oso pensare fra qualche
anno).
L’intervento dell’Autore diventa fondante perché senza le sue istruzioni la macchina non crea nulla. E’ li che
attende… Pertanto, in modo molto semplificativo ma non esaustivo (questo non è il luogo deputato per scatenare le ideologie o le filosofie che verranno), il rapporto Macchina/Autore diventa un unicum imprescindibile come lo sono tutti gli altri strumenti a disposizione degli Artisti.
E’ un ulteriore “TOOL” a disposizione dell’Autore, utilizzabile e fruibile da tutti laddove la differenza tra un
risultato e un altro è data dall’Autorialità, ovvero dalla capacità di organizzare le immagini secondo una
progettualità ben precisa che non può prescindere dai contenuti.
Diventa necessaria tutta la capacità intellettiva dell’Autore per estrapolare dai freddi algoritmi delle
IMMAGINI a tema.
Diversamente AI diventa un gioco come nella maggior parte dei casi, destinati ad essere dimenticato
prematuramente in un angolo come quei giocattoli che si trovano sotto l’albero e che presto vengono a noia.
Per tutto quanto appena esposto, dopo lunga riflessione, ritengo doveroso arrivare inevitabilmente ad una
sintesi, probabilmente scontata ma non per tutti. L’Artista è tale a prescindere dallo strumento che usa, e il
risultato finale deve avere come scopo ultimo quello di muovere emozioni nel fruitore. Che sia un affresco,
un dipinto, una fotografia, una stampa, tutto viene riassunto in un concetto di IMMAGINE che diventa fattore comune delle varie discipline.
Rasentando la blasfemia si può azzardare a pensare che gli strumenti in mano agli Autori hanno
un’importanza residuale, tutt’al più diventano delle abilità.
Gran parte dei miei lavori sono successivamente organizzati e pubblicati in eBook su piattaforme dedicate
(ad oggi 40 eBook pubblicati). Tengo un archivio che comincia ad essere corposo di stampe FineArt in fogli
di varie dimensioni su carta cotone o, a seconda del progetto, stampati su supporto Polaroid o Fuji Instax.
Gli ultimi lavori della serie ANTHROPOS sono stampati su tela di grandi dimensioni e successivamente
dipinti con acrilico, acquarello e china per dare materia e ulteriori elementi di riconoscibilità e unicità.
Per me la sperimentazione è diventata uno stile imprescindibile, un approccio per soddisfare appieno la mia passione e la mia visione della vita. Quasi una sorta di terapia di cui non posso più fare a meno. Questo non vuol dire che ho messo la fotografia nel cassetto, anzi, a marzo 2022 ho acquistato una FUJICA 645 PRO (analogica folding) da portare con me nello zaino per i miei trekking in montagna. Ansel Adams non si scorda mai!”