
MILANO. Si da il caso però che uno degli aspetti trascurati del contesto medievale e del suo ordine di pensiero, specialmente in relazione ad alcune tematiche rilevanti sia quello della poesia, rispetto alla cronaca e alla filologia basata su documentazione e affinità d’ambito argomentativo.
L’arte nelle sue varie forme espressive, specialmente quelle figurate, ha sempre costituito il tramite per veicolare condensati di significati sotto forma di segni e simboli, i quali, se per la civiltà medievale erano facilmente decodificabili, nel loro aspetto di significato e significante, oggi non lo è piu in modo cosi automatico.
Occorre dunque ripercorrere un viaggio a ritroso nel tempo fino a quei secoli centrali del medioevo nei quali la cultura, distinta come origine e evoluzione nelle varie aree geografiche, solo per chiarezza espositiva, in realtà era patrimonio di una intera civiltà “europea”, in questo senso senza confini interni.
Il XII secolo è il tempo di riferimento e il luogo è la Francia settentrionale, alla corte della contessa Marie De Champagne, una nobildonna, figlia del re di Francia e sorella dell’allora re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone.
Anno del signore 1185, a corte circola un trattato che ha come argomento l”amore.
È un’opera scritta da un personaggio abbastanza oscuro nella sua identità.
Di lui si sa solo che era chiamato Andreè de Chappelein, ossia Andrea Cappellano, ed era un chierico e forse il cappellano di corte della contessa Marie.
Quel che è strano rilevare per la mentalità odierna è il fatto che, questo trattato, ( nel medioevo!), è scritto da un uomo di chiesa e che tratta dell’amore ma non verso Dio o come affetto di Caritas. No
questo è un trattato sull’amore erotico fra un uomo e una donna e, soprattutto, se ne parla in termini di sottomissione dell’uomo rispetto alla donna.
Addirittura affermando che il vero rapporto d’amore esisterebbe solo al di fuori del matrimonio.
Ma il medioevo non era forse il tempo del clericalismo che non ammetteva alcun rapporto al di fuori del matrimonio destinato alla procreazione? l’epoca e del patriarcato? Delle vessazioni sulla donna da parte dell’uomo?
Questo sembra essere il pensiero prevalente ancora oggi.
Andrea Cappellano sembra smentire queste illazioni, e il suo scritto alla corte di Marie de Champagne, non destò al suo tempo, alcuno scandalo. Come mai?
Marie discendeva per parte di padre, dal duca di Aquitania, Guglielmo IX d’Alvernia che fu conosciuto come il primo dei Trovatori, ossia il primo de quei poeti che poetavano in lingua occitana.
L’occitano era una delle due lingue volgari, alternative al latino che si parlava nel sud di Francia gia nel XIII sec. Dante la chiamava lingua D’OC dal modo in cui gli occitani pronunciavano l’avverbio di affermazione “si” che era “OC” mentre nell’ ile-de France, al nord, si pronunciava “O’IL”.
Il Francese odierno si sviluppò dal “D’OIL” mentre la lingua “D’OC” divenne minoranza linguistica.
A cavallo dell’anno mille, la “D’OC” era una lingua prevslentemente letteraria, diffusasi dall’Aquitania e poco oltre rispetto a dove era nata: alla Provenza e quindi all’Italia.
La lirica provenzale si trovò strettamente legata al mondo feudale e aristocratico in particolare, delle corti dell’epoca in cui, il poeta trovatore, trovava la sua collocazione naturale.
Il feudalesimo, come visione ordinata cosmologica, sviluppatosi dalla disgregazione dell’impero di Carlo Magno, si formò secondo un principio rispondente al pragmatico frazionamento territoriale.
I “Dominus” a partire dal Re stesso, erano ad uso a concedere terre e benefici ad essi annessi a cavalieri che avessero loro prestato rispetto, servigi e fedeltà.
Tale prassi era a sua volta ripetuta dai vassalli verso i loro valvassori minori, creando così una intricata rete di rapporti di interdipendenza nella quale avevano il loro ruolo anche il patrimonio dei protagonisti, le donne loro congiunte, la religione etc..
Questo sistema fu soppiantato in seguito dalla formazione degli stati nazionali, tranne per l’Italia, area geografica che continuò con questo sistema fino ai primi del’800, causa la mancata formazione dell’unità.
Il termine con il quale venivano identificati i poeti provenzali, deriva dal verbo “trobar” ossia poetare, fare poesia.
Poeti questi pionieri della cultura letteraria cortese, che accompagnavano il loro poetare con la musica, giunta a documento in numerosi esemplari, ma difficilmente rigenerabili e reinterpretatili poeticamente nei loro intenti, nei loro versi, in efficacia di intensità.
Trovatori potevano essere di qualsiasi condizione sociale e di entrambi i sessi.
Gli argomenti delle poesie erano particolari: questi i versi tradotti dall’occitano di una composizione di Guglielmo d’Aquitania:
“Nella dolcezza della primavera i boschi rinverdiscono e gli uccelli cantano
ciascheduno secondo la loro favella e secondo melodia del loro canto.
E’ tempo dunque che ognuno si diriga verso ciò che più desidera.
Di colei che più mi piace e desidero, messaggero non vedo
perciò non ho riposo ne allegrezza e non ardisco di farmi innanzi
finché non sappia di certo se lei si darà per quello che spero.
Nel nostro amor accade come del ramo del biancospino
che sta sulla pianta tremando la notte, alla pioggia e al gelo, fino a domani,
che il sole se’ffonde intra le foglie verdi.
Ancora mi rimembra di un mattino che facemmo la pace tra noi,
lei mi diede il dono piu grande: il suo amore e il suo anello.
Dio mi conceda ancor tanto di vita che il suo mantello copra le mie mani.
Non mi curo delle chiacchere del mio vicino che dal mio buon vicino mi distacchino.
Delle chicchere, so come succede per picciol moto che si proferisce, alti van per vanto d’amore. Noi disponiamo di panni e di coltelli.”
Queste righe contengono tutti o quasi i caratteri tipici della scala valoriale della società medievale e in particolare quella del “servitium amoris”, codice per il quale l’uomo è debole nei confronti della donna nel comunicarle i suoi sentimenti.
Non si tratta di una debolezza dovuta a mancanza di coraggio o di spirito nell’uomo: sta piuttosto nella natura stessa dell’amore per come era vista nel contesto della percezione valoriale medievale.
“l’amore che sta sul ramo del biancospino che sta al freddo tremando”.
E’ una semplice frase che viene da un uomo affascinato dal mistero della natura dell’amore e che si sente fragile difronte alla donna e difronte a questo mistero di cui la donna stessa è invece custode. Quale è questo mistero? In cosa consiste?
Il rapporto di debolezza fa eco, in modo sibillino, al rapporto di vassallaggio feudale nel quale si identifica e idealmente si inscrive.
Nel rapporto (fatto per metafora e similitudine in forma, ma identico in sostanza), fra legame vassallatico /amoroso, si intende, è come se la donna dovesse concedere un beneficio, cosi come i vassalli lo concedono ai loro sottoposti, dietro promessa di fedeltà.
Si parla inoltre, interponendo i due argomenti, della pace fra un uomo e una donna, una pace vista come patto sacro in cui la donna ” sacrifica” appunto, cioè rende sacro (che è il contrario di “rinuncia” come si sarebbe portati a credere( sic!) ma invece costituisce una nobilitazione di quanto viene scelto rispetto ad altro)e promette il suo amore e il suo anello al cavaliere.
Ricorre ancora una volta è riecheggia la similitudine con la cerimonia di investitura a cavaliere: Il signore donava un anello al suo vassallo come segno della promessa del legame e degli impegni che da questo derivava.
In un altro punto della poesia si descrive un altro gesto :” che il suo mantello copra le mie mani”.
Anche in questo passaggio il riferimento è quello di un altro gesto compiuto nella cerimonia di investitura a cavaliere, che il dominus, come segno di protezione compiva verso il vassallo, il quale stava inginocchiato a mani giunte difronte al suo signore e dal mantello di lui si faceva coprire le mani.
E’ la donna dunque entro la lirica poetica che descrive il mondo dei sentimenti più autentici, che protegge il cavaliere (e fuor di metafora, l”Uomo in generale, se si argomenta in contesto amoroso, cortese o meno) simbolicamente, con il suo velo e non viceversa.
Questa impalcatura di significati e rimandi, puntellata di segni e simboli, in una sintesi perfetta, protesa a indicare realtà sentimentali sub-limes, si ritrova di una poesia piuttosto nota.
Si tratta di un componimento che introduce tutto il simbolismo medievale della cultura cavalleresca e cortese.
Ci si potrebbe chiedere da dove nasca, quale l’origine di tutto il nuovo materiale letterario.
La risposta che, chi scrive intende proporre, non è fra quelle convenzionali, ne rispetto a quanto si dice verso la poesia, ne verso l’arte cortese che l’accompagna in quanto tale.
Innanzi tutto occorre sfatare l’idea che l’arte in generale e la poesia in particolare, fosse semplice intrattenimento per nobili, nella certezza che questa tesi che ormai fa parte del pensiero prevalente sull’argomento, sia infondata.
La letteratura cortese dovrebbe essere considerata invece come un tentativo delle donne e uomini di quel contesto cortese, di trovare una alternativa laica alla letteratura di carattere religioso, la quale aveva invaso tutti i campi del sapere e strozzato ogni possibilità di visione alternativa.
Si era generata dagli aspetti piu cavillosi della liturgia una cultura omologata, di frasi fatte da cui traspariva peraltro molta superficialità (e in questo ci sono forti similitudini con il modus vivendi della contemporaneità).
Il tentativo della nascente arte poetica era quello di dare vitalità al tessuto sociale e culturale che allora era stracolmo e intasato di santi, martiri, ideologie sacrificali e lontana dall’autentico spiritualismo
Imparava di fatto, una prassi fatta di riti esteriori, e poca sostanza, nonché carente delle virtu che fanno di un uomo un santo, in senso piu vero.
La fonte alternativa della nuova letteratura occitana venne trovata nei miti appartenenti alle antiche civiltà pagane, e ancora una volta, da un mondo naturale e delle tradizioni misteriose ad esso afferenti.
E per paradosso è proprio in questa formula laica che il cristianesimo ritroverà nuovo vigore, anzi, un abito nuovo e svecchiato.
Il riferimento costante della poesia trobadorica è quello del mondo interiore della natura e dell’anima, divenendo in modo del tutto naturale, simbolica. Come simbolico del resto è il lessico del vangelo: imitangolo e raccontando per allegoria il senso della vita, la poesia provenzale ricalca il registro comunicativo e l’argomento amoroso( ma declinato nella particolare formula uomo-donna) e quello della fedeltà. Insito nel vangelo.
L’etica e le vicende portate nel mondo da Cristo; questo è l’aspetto che la poesia cortese riprende e sviluppa con una semantica nuova.
Chiaro è che la chiesa, dopo aver fatto tanti sforzi per imporre l’idea di un Dio antropomorfo, calato nell’umana vicenda terrena, che si presenta al tempo stesso giudice che dispensa gratificazioni e condanne, soprattutto che agisce per mezzo dei suoi ministri internamente alla chiesa, non poteva accettate passivamente un attacco al suo primato.
L’unica possibilità di reazione era quello della condanna.
L’evento storico a suggello di questa deriva dottrinale di marca ecclesiastica, fu la celebre crociata che Papa Innocenzo III indisse contro i Catari, minoranza che in un certo senso includeva anche gli Albigesi, entrambi nativi provenzali.
I Catari erano certamente cristiani, ma rifuggivano il carattere cattolico dell’essere cristiani e la romanità in particolare.
Dunque fu una crociata di cristiani contro altri cristiani,che dalla sede pontificia furono chiamati eretici, ufficialmente eretici, in realta invece, disconoscrndo l’autorita ecclesiastica, semplicemente volevano tornare al modello originario di chiesa inscritto nei vangeli, non solo i canonici ma anche e soprattutto quelli apocrifi.
Fortemente anticlericali i catari e vedendo nella chiesa uno smarrimento dei principi cristiani stessi, ricerercarono la purezza originaria la dove erano le origini: “catari” significa appunto puro.
Per questi uomini, il cui cuore era sinceramente mosso da spirito cristiano, ognuno doveva liberarsi dal male solo seguendo l’esempio di Cristo: la chiesa arricchendosi, aveva intrapreso la strada opposta.
La curia romana la pensava in modo ovviamente diverso dai catari provenzali e liperseguitò per anni.
Allo stesso destino andaronoincontro anche gli Albigesi fino a che, nel 1209, l’ultima roccaforte francese dei catari, Berzier, fu distrutta e gli abitanti sterminati.
E’ celebre la risposta di Papa Innocenzo III al legato che chiedeva a lui come avrebbero potuto le milizie cristiane fedeli alla dottrina cattolica, riconoscere i catari da gente che non lo era.
La risposta del Papa fu :”uccideteli tutti, poi Dio a suo modo, riconoscerà i suoi”.
Molti furono torturati e arsi vivi nella locale chiesa della Madlaine.
Quello che venne distrutto in questa crociata non fu però il capitolo finale della culturache.avrebbe messo al centro della scala valoriale la natura originaria del mondo e dei nei vangeli.
Un mondo ereditato dai greci e dalla sapienza dei popoli egiziano e mediorientale. Non fu a Berzier l’atto finale della vicenda umana, spirituale e morale, nonche culturale che invece, come una fenice sopravvisse.
Ci riusci attraverso altri simboli e altre leggende rievocare dalla notte dei tempi.
Una di queste racconta che Giuseppe D’Arimatea, che aveva raccolto il sangue di Cristo ai piedi della croce con un calice utilizzato durante l’ultima cena, il Gral, come è conosciuto, fosse andato nelle isole conosciute come Britanna e giuntovi avrebbe interrato il bastone che aveva usatoper aiutarsi nel cammino in viaggio per giungere a Glastombuly, una località dispersa fra le campagne collinari di quella terra.
Si trattava della terra circondata dalle acque e che la leggenda identifica con la mitica Avalon: il, luogo di sepoltura di Re Artù.
Si fonde la leggenda di Artu, il re virtuoso e quella del sacro Gral, con fatti e personaggi realmente esistiti.
Da quel bastone ormai stagionato, piantato da Giuseppe D’Arimatea, sarebbe fiorito, “si dice”, un germoglio di biancospino: in quel luogo la leggenda narra che sia stata costruita la prima chiesa d’Inghilterra.
Il biancospino fiorito poco prima di Natale, venne portato in dono al Re e Regina d’Inghilterra (usanza anche oggi osservata).
Mentre in Provenza, località meridionale della regione occitana, nascevano queste leggende, un po piu a sud, in Italia, una nuova e parallela letteratura nasceva diffondendo gli archetipi della antica tradizione naturalistica esattamente come accadde nella regione meridionale della Francia.
E’ questa, una letteratura peninsulare italica, ha legami con la terra francese e inglese, in particolare con il popolo Bretone che inizialmente stanziato nelle isole, dovette fuggire a seguito delle invasioni barbariche, nella vicina Francia, costituendo l’enclave poi chiamata Britannia, per differenziarsi invece dalla Gran Bretagna.
Cosi mentre nel sud della Francia nasceva la letteratura in lingua “D’OC” al nord in Britannia nasceva la lingua “D’OIL”basata sull’antica religione celtica, tutta incentrata sulla figura del mitico Artù e la tradizione naturalistica.
Intanto in Italia, in Sicilia in particolare, il germe portato dai catari in fuga dalle persecuzioni di Innocenzo III, della nuova letteratura in una nuova lingua, cominciava a dare i suoi frutti. È il principio del XIII secolo.
La “Historia ragum Britannie”, ossia la storia dei Re di Britannia, scritta da un chierico, Goffredo di Mommaut, rese popolare la figura di Artu, narrando di lui che sconfisse i Sassoni divenendo nel frattempo un eroe nazionale.
Pur generato da una leggenda, o al più ispirato da qualche valente combattente nella lunga e sanguinosa conquista dei Sassoni, da questa storia, nacque poi il ciclo Arturiano in lingua d’oil, che era il volgare francese prevalente dell’epoca, rispetto all’occitano Che divenne minoranza linguistica, tutt’ora esistente.
Il nome ARTUR, in lingua celtica significa ORSO, il riferimento è simbolicamente quello di forza e protezione.
Il codice simbolico di questi testi, è bene ricordarlo, va sempre tenuto presente, diversamente questi non diranno nulla al lettore.
Il caledoscopio simbolico insito nei testi, a partire dall’orso, si diffuse nel medioevo ben oltre i confini della Francia.
Si diffuse in Italia ad esempio e con molteplici forme.
Un caso particolare è quello che si ritrova sulla porta della pescheria della cattedrale di Modena: vi compaiono scolpite le parole “Artus di Britannia” affiancate dalla figura del Re e da un orso.
Il cavaliere in procinto di liberare Ginevra da un gigante che la tiranneggiava gia dice molto del significato che tiene insieme le tre figure che compaioni.
La stessa cosa si puo dire per la cattedrale di Otranto all’annunziata, oppure anche in Austria sulla tomba dell’imperatore Massimiliano, si puo vedere una statua di Artù, ideale accostamento alla figura del mitico re di virtù dell’imperatore del S.R.I
Tutta Europa si riempi di questi simboli e del loro significato nascosto: è il cuore del simbolismo medievale.
La storia di Artù è conosciuta anche ai nostri giorni, ma il significato, che era chiarissimo anche al piu umile dei contadini medievali, forse non lo è cosi bene oggi.
Artù fra i suoi cavalieri non è un Re perché il migliore fra tutti o l’erede per discendenza.
Infatti la dote della forza era di Lancillotto, quella della saggezza di Merlino, non era nemmeno il più immacolato perché quella dote apparteneva a Galahad.
Allora chi era Artù? Cosa rappresentava la sua regalità?.
Egli altro non era che un simbolo, incarnava un archetipo fondamentale dell’umanità, è la colonna portante della tavola rotonda, a sua volta simbolo del concilio fra uomini.
Gli uomini per mettersi d’accordo devono stare attorno a un tavolo che non può mettere alcuno in posizione di preminenza rispetto ad altri.
Neppure il re aveva un seggio a se, ma insieme agli altri 11 cavalieri: 12 sono i cavalieri incluso il re, come 12 mesi dell’anno, 12 come le costellazioni dello zodiaco e 12 sono gli dei olimpici della grecita’ nonche 12 sono gli apostoli…
Tutte queste ricorrenze fanno appello all’ordine cosmico della natura a cui l’umanità si dovrebbe richiamare per creare armonia, creando cosi una civiltà attraverso la concordia di cui la tavola rotonda è simbolo.
Il Re è il garante di questo patto, dell’ordine. Tutto è il re, tranne quel principio di superiorità che oggi si attribuisce al potere del governante.
Artu è il simbolo del patto, non del potere.
La parola PATTO è centrale, un vincolo superpartes, uno stigma sacro che non dovrebbe essere tradito, e che sta alla base della cultura feudale, nonché dell’amore in senso più alto.
La custode di questo patto è la donna, nella quale si racchiude il senso autentico dei vangeli, trasferito, a modo di simbolo nella parola “Amore”, in senso più ampio possibile. Il Patto diventa sinonimo di amore : “Vi lascio un unico comandamento, amatevi ” disse Gesù, la cui vicenda terrena sarebbe stata impossibile anche solo a cominciare senza una donna ( Maria) e terminare lasciando una moltitudine di misteri da chiarire, per mezzo di un’altra ( Maddalena).
IL feudalesimo, nella sua declinazione cortese, riprende il senso cristiano piu autentico, mettendo un patto alla sua base, ma non con i modi e i vincoli tutt’altro che di natura spirituale della chiesa cattolica, ma con tradizioni che la chiesa tentò di invece stroncare, allora è per molti secoli di li a venire.
Il Patto come Amore, l’amore come legame, il legame amoroso erotico fra uomo e donna come il piu privilegiato, perché volto alla procreazione della vita, e quindi il più rappresentativo, ma non solo, perché viatico per conoscere la natura divina della persona.
Certmente però non è l’amore fra uomo e donna il solo, non l’unico.
Non c’è solo il legame fra Ginevra e Artù, ma anche fra il signore e il suo vassallo uniti da un patto di lealtà, un vincolo di cavalleria feudale, c’è il legame fra amici, famigliari( senza che questo sfoci in faida con altre) etc.etc.
Insomma c’è il legame di onestà contro la menzogna che nel medioevo era di primaria e fondamentale importanza.
Il tradimento di Ginevra con Lancillotto ai danni di Artù, fa andare in frantumi il mondo personale del re, ma essendo il re simbolo di concordia fra i cavalieri, andando lui in frantumi, anche i cavalieri entrano in discordia, e come la tavola rotonda va in frantumi, cosi anche la civiltà di cui è metafora.
Il sodalizio basato sulla fedeltà si è rotto e si è rotto il legame che ha generato civiltà, e unità
Come un matrimonio nel quale viene meno il vincolo di fedeltà (tema sempre molto attuale), che perde possibilità di esistere perché il matrimonio è “matris-munus”, cioè il dovere della madre (di allevare i figli) ma anche in modo speculare il “patris-munus”, cioè il dovere del padre di proteggere l’incolumità de moglie e figli: entrambi costituiscono quel nucleo di valore che è il “ partris-monius” ossia il patrimonio (famigliare).
Che la società si dovesse basare sull’assunzione di doveri anziché di diritti (come invece si crede oggi in cui le cose sono invertite) nel medioevo era un fatto assodato.
Non è un caso che nel peggior girone infernale Dante, esimio vessillifero del medioevo, mettesse i traditori: in bocca a Lucifero ci sono Giuda e Bruto, perennemente masticati, sottoposti a pena-simbolo per la rottura del patto di fedeltà.
Da questo medioevo “cosi arretrato” la civiltà di oggi sembra aver molto da imparare sulla disciplina….
Ci si potrebbe chiedere cosa muove Ginevra a tradire Artù, visto che è descritta come un modello di grazia e purezza.
E come mai Lancillotto abbia rotto il patto di lealtà, proprio lui, l’amico piu fidato di Artu.
Il motivo, ancor una volta è simbolico e risponde a un archetipo sacro che è quello dell’amore erotico.
L’amore fra uomo e donna, non si esplica solo dentro una convenzione matrimoniale, ma anzi, come descrive il chierico Andrea Cappellano nel poemetto “De amore”:
“Che altro è amore se non smisurato e concupiscente desiderio di abbracci furtivi e nascosti?”
Questo erotismo è un concetto che Nietzsche chiamava “volontà di potenza”, richiamandosi a sua volta a Schopenauer.
La psiche umana, l’anima ha una istintualità ontologica a desiderare, sembrano dirci poeti e filosofi d’ogni tempo e desiderare è quella parte istintuale che non ha motivo razionale e che porta ed essere attratti “d’all’altro/a”: è pura volontà di agire, non ha logica, non ha senso, si giustifica da sé.
E infatti amore nasce dall’ego, la struttura desiderante della psiche.
Ne parlò Freud per primo, riferendola a tutti gli animali a vario grado di consapevolezza molto variabili: si pensi al diverso ego sviluppato da api o formiche da quello umano.
La coscienza è il dato differenziale e dirimente, l’inconscio è l’altra parte che, quando ha caratteri delcollettivo (C.G.Jung), non consente al singolo di distinguersi dalla massa.
L’inconscio individuale a maturità individuale raggiunta, spinge in direzione opposta al collettivo e, quando giungei risposta all’impulso egoico soggettivo, si genera uno strappo fra se e la parte collettiva dell’inconscio.
L’amore serve per ricucire questo strappo e per farlo deve inevitabil.ente attrarre…irresistibilmente attrarre a favore della vita in ripristino di unità.
Per cui resta da prendere atto del fatto che l’amore eterosessuale, non puo essere una dinamica irregimentata da convenzioni o matrimoni o patti, se non quello ammesso dalla natura stessa.
L’uomo medievale, l’alchimista e il mago voce il più semplice dei cortigiani, ne erano perfettamente consapevoli.
Questo voleva intendere il chierico Andrea Cappellano quando parlava dell’amore come forza insopprimibile nel suo sonetto.
E questa natura dell’amore, in senso lato questa volta, , al “medioevo cosi arretrato (sic!) era perfettamente nota, tanto che nel XIII secolo, nella Sicilia del regno di Federico II, il “Puer de Apulie”, imperatore del sacro romano impero nel 1198, questa letteratura era presente e viva nei suoi contenuti.
Federico, figlio di Costanza di Altavilla, crebbe in Sicilia alla corte di Palermo in cui convivevano l’alchimista scozzese Michele Scoto, l’ebreo francese Jacob Anatolie, il mozarabo Teodoro di Antiochia, e Federico II a 25 anni parlava 5 lingue e discuteva di matematica con il pisano Leonardo Fibonacci, lui stesso scrisse un trattato sulla falconeria, in latino e, a parte tutto questo, risolse senza colpo ferire e senza versare una sola goccia di sangue, ma con accordi diplomatici con il sultano arabo, una crociata e fu incoronato anche re di Gerusalemme.
(Qui si impone al lettore un confronto con gli attuali nostri governanti che mettono in scena il loro vile animo nell’inezia e nella menzogna assoluta, esibita fieramente negli orrendi spettacoli del Talk show che offendono non solo l’ascoltatore ma l’onore e l’intelligenza stesse come valori in se)….quale lezione preziosa e impagabile fornisce in questi casi il tanto arretrato (?) medioevo….
Fatto sta che sotto Federico II sorse una scuola di poeti , come accadde proprio in Provenza, e di poeti che si impiegavano anche in attività alternative, come ad esempio Jacopo da Lentini che era notaio e poeta al tempo stesso.
Non è un caso la formazione di questa scuola poetica: i suoi animstori erano i fuoriusciti di Francia in seguito alle persecuzioni della chiesa verso i Catari.
Fu cosi che i temi dell’amore cortese arrivarono in Sicilia e i poeti li interpretarono in modo originale anche con la lingua: Nacque qui il primo volgare italiano, prima del fiorentino che sarà invece quella declinazione del dolce stil novo.
Jacopo da Lentini, caposcuola e inventore del sonetto, era solo uno dei tanti poeti siciliani come Pier della vigna, lo stesso Federico II, Guido delle Colonne etc. etc..
Jacopo da Lentini, il “Notaro”, scrive sull’amore:
“Amor è uno desio che ven da core per abbondanza di gran piacimento e li occhi in prima, generan amore e lo core gli da amiccamentio. […]
Ma quell’amor che stringe con furore, dalla vista de li occhi ha nascimento.
Occhi rappresentano a lo core, donni cosa che vede in bono e rio come formata naturalemente e lo cor che di zoe è concepitore, immagina e piace quel desio. E questo amore regna fra la gente.
La prima forma della lingua italiana versata nel canto dei primi sonetti a tema universale: l’amore erotico, e qualcosa vorrà pur dire.
Jacopo scrive dell’amore come sentimento attivato dagli occhi, che colgono la corporeità dell’oggetto amato, ma poi è l’anima che ne da nutrimento, invaghendosi nell’altro/a e concepisce il desiderio. ( la spiegazione psico-analitica direbbe che la ragione sta nel tentativo di ricucire lo strappo originario).
La finezza di ragionamento è la prima cosa che emerge nei poeti siciliani e che si ritrova anche, in principio al XIV secolo, in Toscana.
E’ il tempo dei poeti rinomati della tradizione: Dante, Petrarca, e tutti quelli che si riconducono sotto il segno del dolce stil novo.
“Novo” perché ripulito dagli appesantimenti della letteratura religiosa precedente, “dolce”perché sincero, puro come l’amore erotico.
L’amore ritorna sempre al cor gentile, esattamente come l’uccello ritorna nella selva fra le foglie della poesia d’introduzione.
La natura non ha creato a caso, non si parla nei sonetti di attrazione dei sensi banalmente, ma di una attrazione animistica, ossia quando il “cor si ingentilisce” e un’animo si rivolge verso la bellezza, ecco che si produce una attrazione verso le cose “belle”.
Si tratta dello stesso concetto espresso dai greci quando parlano di “Kalos” ossia armonia, equilibrio psichico riverberato nei comportamenti e nei modi, questa è bellezza pura che diverrà poi il codice di comportamento cavalleresco, ma da vedersi solo come forma esteriore di una bellezza interiore.
Quando Dante descrive nella Vita Nova, narrando della sua età a nove anni:
“[….] da allora innanzi dico che amore signoreggiò la mia anima,
la quale fu si tosto a lui dispensata e cominciò a prendere sopra me tanta sicurtate e signoria
per la virtu che dava l’immaginazione che me convenia fare tutti li suoi piaceri compiutamente.
Elli mi comandavamolte volte
che io cercasse molte volte per vedere questa angiola giovanissima.
Molte volte l’andai cercando e vedea la si nobili e laudabili portamenti
che certo di lei si potea dire la parola del poeta Omero
ella non parea figliola di uomo mortale ma di deo”.
La Beatrice di cui parla il poeta non è minimamente quella reale, incontrata a nove e poi diciotto anni. Piuttosto nove e diciotto sono, oltreché numeri per se stessi, di nuovo un simbolo, che riguarda la struttura complessa ricorrente nella architettura dell’intero poema legato alla numerologia.
Beatrice nemmeno era una delle trenta ragazze piu belle di Firenze (o forse si ma non importa, non è cio che conta), la figlia di Folco Portinari morta di parto a 24 anni.
Beatrice è un nome fittizio e simbolico, è colei che, letteralmente, “porta beatitudine”.
Dopo la morte di Beatrice Dante attraversò un periodo di confusione interiore e non sapeva piu distinguere fra bene e male, insomma aveva smarrito la ragione:
“Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura che la diritta via era smarrita”
L’amore non porta dunque solo aspetti estatici e gradevoli, ma anche e soprattutto quelli del rovescio della medaglia.
Quando nel canto V dell’inferno si incontrano Paolo e Francesca questo diviene chiarissimo.
E nei versi di Dante che fa parlare Francesca, riecheggiano quelli di Guinizzelli.
Nessun cor sembra poter resistere al richiamo amoroso che continua a far abbracciare i due corpi anche nella morte, persino nelle pene dell’inferno, con un abbraccio che diviene asfissiante.
Ci si potrebbe chiedere cosa questi due avessero fatto di male. Forse amarsi?
Le famiglie di Paolo e Francesca erano i da Polenta di Ravenna e i Malatesta di Rimini, in conflitto.
Il modo migliore per risolvere controversie era combinare matrimoni e questo si fece.
Lo sposo di Francesca però non doveva esser il bel Paolo ma il fratello, decisamente meno piacente, tale Gianciotto: zoppo brutto e soprattutto scortese.
Le famiglie per paura del rifiuto di Francesca, mandarono Paolo invece che Gianciotto, e infatti Francesca accettò il matrimonio che poi scopri essere stato fatto per procura del fratello Gianciotto.
Francesca si disperò ma accettò comunque, però frequentando Paolo nei dintorni della rocca di Gradara, questo il teatro dei fatti, furono sorpresi ad amoreggiare.
Dopo aver letto di Lancillotto e Ginevra, e presi a imitare la trama del racconto, i due consumavano il tradimento verso il matrimonio e verso Gianciotto.
Costui avvertito dalle “malelingue”, raggiunse entrambi gli amanti e li trafisse con la stessa spada: l’iconografia artistica in merito è notissima.
Il poeta Dante, il poeta del dolce stil novo comprende benissimo cosa anima i due amanti e il dramma che si cela dietro un amore così tormentato, e infatti è questo, uno dei tre episodi in cui nella commedia il poeta sviene….è accaduto prima solo difronte a Caronte.
Comprende che l’amore, questo sentimento che all’apparenza è cosi limpido, in realtà può portare con la medesima e forse maggiore efficacia alla distruzione.
Questo accade perché emerge l’altro archetipo della cultura medievale, ossia la “responsabilità” che è cosa diversa da ciò che si intende oggi.
Le regole, il contratto, gli accordi presi, ( in questo caso in termini di matrimonio) non sono misure arbitrarie che si possono disattendere impunemente, come a noi contemporanei oggi potrebbero sembrare( viste le numerose derive disegnate in tal senso) se riferite al valore dato al legame di nozze.
Il matrimonio allora era un mezzo per creare ordine sociale che potesse creare benessere.
Un nucleo famigliare, cellula di una società con le proprie gerarchie.
Pur essendo stata ingannata Francesca, (e questo è pacifico) si è resa responsabile della rottura di un patto ( e in questo punto bisogna evitare di giudicare gli usi di un’epoca lontana senza conoscerne i motivi retrostanti e soprattutto di farlo con i propri parametri di misura).
Nel medioevo il matrimonio era un modo per suggellare una pace, discutibile quanto si vuole, ma non era, come oggi si è portati a credere, un modo esplicito di vessare una donna per soddisfare le voglie morbose di uomini avidi o di farle genericamente violenza, anche se poi il rovescio della medaglia era che la donna avrebbe dovuto sopportare conseguenze.
Dante si chiede della responsabilità colpevole dei due amanti Paolo e Francesca nel rischiare di generare faide famigliari con il loro atto, e la risposta è si.
Anche da offesi dalla spada i due, non possono chiamarsi fuori dalla responsabilità del loro gesto.
L’individuo singolo della coppia di amanti (nella commedia come ai nostri giorni) è animato da volontà di potenza e se ne infischia delle regole e delle conseguenze (che comunque ci saranno).
L’uno e l’altro sono espressione reciproca di questa volontà di potenza, che è limpida e pura fino a quando non fa finta di comprendere che esistono anche gli altri che vanno rispettati: che esiste la collettività e che se calpestata porta solo male e rovina.
Sembra che il medioevo qui voglia dare una lezione morale e di educazione civica, dicendo che la libertà assoluta non esiste.
Nella Kabbalah ebraica, si rappresentano in incipit dello scritto, due pilastri che reggono il tempio di Salomone:
Si tratta di un’immagine simbolica che rappresenta la vita.
Il pilastro di DX rappresenta il maschile e la volontà di potenza, l’opposto è associato al femminile e al contenimento, e frena( o dovrebbe) la libertà del desiderio di potenza.
Queste due forze si dovrebbero equilibrare, che poi è la stessa cosa a cui allude il Tao cinese con lo yng e lo yang.
Se l’integrazione non avviene, cioè se non si realizza l’ideale androgino, cioè l’unione di razionale e impulsivo istintuale, emotivo, accade il disastro.
Se il femmininino non contiene, se, per dirla con i greci, il femminino non si fa “Sofia”, simbolicamente il male incombe.
Femminino e Mascolino nel medioevo sono associati a contenimento e volontà di potenza insiti in misure e proporzioni variabili in tutti gli umani. Ma non è una concezione solo medievale: è la natura stessa, sempre uguale oltre le epoche storiche.
In Paolo e Francesca è venuto meno il Femminino sacro, la responsabilità.
E questa responsabilità è rappresentata proprio da quel biancospino nato dal bastone di Giuseppe di Arimatea.
Il “bastone guida il cammino e che sorregge” e che fiorisce, è il pilastro sinistro del tempio di Salomone, è lo yin del tao, è la donna.
Non è Francesca il biancospino, perché non ha saputo aspettare di essere “riscaldata dal sole “, come il ramo di biancospino appunto, come cantava Guglielmo il trovatore nel suo canto lirico.
La società contemporanea, nel suo femminino sembra essere preda dell’egoismo di Francesca e abbruttito ancor più dal fatto di aver perso anche la gentilezza, i modi gentili e la voce soave che lei, la Francesca di Dante aveva almeno preservato.
Ma soprattutto il medioevo ci mette davanti che, il desiderio, la brama, soprattutto quella concupiscente, dovrebbe essere riposta in un calice che ne contenga la forza distruttiva e preservi civiltà e benessere interiore e esteriore.
Quel calice nel medioevo era chiamato Gral e simboleggiato dal rosso delle bacche e poi dal bianco dei fiori di biancospino.
Bianco, il colore della verginità della dea degli antichi agricoltori del mesolitico, cosi come il manto della vergine Maria che accoglie dentro di se il mistero della vita e fa al tempo stesso da calice al sangue generato dalle spine che pungono la fronte di Cristo, incoronato di quelle stesse spine di biancospino come pare fosse accaduto.
Il simbolo della Madonna è quello dell’amore vero, non erotico, non egoista.
Non egoista non per la questione falsamente morale a cui la riferiamo oggi, ma per la responsabilità della custodia dell’ Madris- monus e di conseguenza del Partris-monus.
Nella commedia di Dante, la stessa donna che nella Vita Nova era simbolo di amore erotico, nella commedia diviene il calice, il biancospino che infatti lo conduce al paradiso.
Cosi il viandante perso ossia Dante e come ciascuno oggi che lungo il cammino si sente smarrito “nel mezzo del cammin di nostra vita”, è al tempo stesso, se stesso e anche il matto dei tarocchi.
Altro codice questo delle carte “taroccate” di simboli uscito dall’immaginario medievale che può ritrovare la sua strada grazie a Beatrice, alias il biancospino.
E’ una donna, quella del biancospino che e’ l’antitesi degli slogan mainstream contemporanei .” il corpo è mio e non di Dio” e cose simili seguenti…
“Non c’è niente di mio”, pensano i poeti del medioevo, c’è la volontà di potenza ma poi c’è la ragione responsabile che deve esserci, per grazia di Dio, per creare benessere e vita.
Questo è l’insegnamento del tanto vituperato e arretrato medioevo, ed è impartito con il fascino dei simboli archetipici disseminati in abazie, castelli, miniature, dipinti, sculture e nella natura stessa, come scriveva il monaco di Chartres, Almerico di Bene, ripresa piu tardi da Giordano Bruno, appunto, bruciato sul rogo dell’Inquisizione in Campo dei Fiori alle soglie del 1600… per tornare alle buone maniere clericali…..
Bibliografia su richiesta.
LUCA NAVA