RIMINI. Rovesciare la famosa frase del Piccolo Principe (“L’essenziale è invisibile agli occhi”) non è un gioco, è l’essenza della pittura di William Congdon, dice Ubaldo Casotto, curatore della mostra che il Meeting per l’amicizia fra i popoli presenterà dal 20 al 25 agosto presso il quartiere fieristico dedicata alla solitaria “avventura dello sguardo” dell’artista americano, tra i maestri dell’Action painting (1912-1998).
Un lungo viaggiare e dipingere, non col pennello ma con la spatola e il punteruolo, che lo portò infine a stabilirsi in Italia, prima a Venezia, poi ad Assisi e infine a Gusdo Gambaredo nella Bassa milanese.
Perno della mostra è una lunga intervista risalente al 1992 in cui Congdon racconta dei luoghi della sua vita, dei suoi viaggi per il mondo e dei quadri ad essi legati, che scorrono sullo schermo con il sottofondo delle sue parole. In mostra quattordici opere, prestate dalla Fondazione Congdon, tra cui un inedito, un “Santorini” imponente (un olio su tavola di 65 centimetri per 161), il vulcano dell’isola greca dove Congdon soggiornò a lungo, di proprietà di una collezione privata. E una statua, anch’essa poco vista perché pochi conoscono gli inizi di Congdon come scultore, una madre che piange il figlio morto in guerra, una “pietà laica” – dice Casotto – quasi profetica, perché è del 1940 e che significativamente il laico Congdon ha titolato “Year of Our Lord” (l’anno di Nostro Signore), gentilmente concessa dal Comune di Buccinasco. Il primo quadro in mostra (“Tre alberi”) è l’ultimo che Congdon dipinse, prima di morire, il 15 aprile 1988».
Casotto, perché Congdon si staccò dall’astrazione, per cogliere l’essenza di ciò che si vede? «Sono sempre partito – diceva – da un oggetto concreto che colpisce il mio occhio».
«Non ha mai smesso di guardare, di affondare lo sguardo in ciò che aveva davanti affinché l’occhio “soggettivo” divenisse un occhio “oggettivo”, cogliendo l’essenza di ciò che guardava. Rifiutava con decisione l’attribuzione di astrattismo per la sua pittura. Così si capisce la sua battuta, volutamente provocatoria, su Cezanne e Raffaello: «Cezanne ha messo dentro le mele tutta la sacralità della Madonna. Questa è la cosa, questa è la “melezza” delle mele di Cezanne: non sono mele, sono “melezze”, sono la Madonna delle mele, Cezanne dipingeva la Madonna, non le mele. Mentre Raffaello dipingeva le mele, spesso, e non la Madonna».
Perché furono determinanti per la sua pittura gli anni vissuti a contatto della rovina dell’Italia del dopoguerra?
«Congdon disse testualmente: “La guerra mi ha aperto all’amore”. Lui, che viveva in un ambiente puritano chiuso e contro cui si ribellava, ha vissuto il contatto con la sofferenza come un’apertura. In guerra, scoprendo la sofferenza, dice di aver scoperto l’amore Fu autista di ambulanza in Africa, in Germania e in centro Italia. In Italia si è sentì «accettato» per come era. «Di qui – disse ancora – il mio amore per l’Italia», Paese che poi scoprirà amandone a sua volta le città («per me le città sono sempre persone») in cui ha lungo vissuto (Venezia, Roma, Napoli, Assisi) fino a quel “non luogo” che è stato il suo ultimo viaggio, la Bassa milanese».
Come maturò “lo scandalo” della sua conversione al cattolicesimo e quale fu il suo originale contributo allo sviluppo dell’arte del Novecento?
«Congdon parlò della sua conversione come di una resa: «Nel 1959 mi arrendo a Dio e precisamente alla Chiesa cattolica”. Venne battezzato ad Assisi, dove abiterà per vent’anni. Ma il verbo stesso che lui usa – arrendersi – rivela una lotta con una presenza che da tempo gli ingombrava la mente e lo sguardo. Congdon ha a lungo dipinto Crocefissi e quadri di scene del Vangelo, ma è lui stesso a dire, a un certo punto, che una nave abbandonata su una spiaggia è come un Crocefisso, che l’avvoltoio morente – uno dei suoi quadri più belli e famosi – è come Cristo in croce. Ma i suoi “Campi di orzo” o il suo “Giallo” (un pannello totalmente giallo) catturano lo sguardo e riempiono di silenzio stupefatto. «Io non vedo un pino – disse a un suo amico di fronte a una pianta – vedo il nulla da cui un Altro sta facendo nascere un pino».
MARCELLO TOSI