PADOVA. Un’estate di tanti anni fa decisi d’incontrare per la prima volta Giotto, nella Cappella degli Scrovegni di Padova, scrigno di un capolavoro assoluto dell’arte. Grazie alla disponibilità del professore che allora mi seguiva per la mia prima tesi di laurea e che abitava in un piccolo centro vicino alla città di Sant’Antonio e che ora è fra le persone che ho più care, ho potuto realizzare questo proposito, fermandomi da lui per la notte dopo un viaggio estenuante.
Sfortunatamente, dopo tanti giorni di sole, quel mattino che m’incamminai per andare a vedere il capolavoro, si mise a piovere a dirotto e l’imprudenza di calzare sandali aperti e un abbigliamento leggero mi sarebbe costata una fastidiosa influenza.
Dopo aver cambiato tre o quattro autobus e chiesto a chiunque, arrivai a destinazione. L’attesa per entrare fu lunga e snervante dal momento che c’era davvero tantissima gente e neppure la visita al museo d’arte sacra ricavato nello stesso complesso da cui si accede alla cappella, mi soddisfò pienamente.
Altra interminabile attesa fu quella nella saletta in cui, come spiegavano le guide, avveniva una sanificazione necessaria per non guastare il microclima in cui sono stati realizzati gli affreschi.
Fra l’altro, in quel locale iniziai a parlare con una ragazza che mi sembrava interessata a me e quindi già fantasticavo sull’invitarla a prendere un aperitivo, ma dopo qualche battuta lei mi sganciò velocemente. Amen. Non ero venuto per fare conquiste, ma per godere della bellezza del ciclo di Giotto.
Finalmente l’ingresso nella cappella, che immaginavo molto più grande, pur conoscendo bene le dimensioni dell’ambiente per averle studiate sui libri, compensò tutti quegli sforzi.
Per dirla tutta, ero andato agli Scrovegni soprattutto per vedere da vicino l’affresco che raffigura la Natività. Databile fra il 1303 e il 1305, è collocato nel registro centrale superiore, più precisamente nella parete destra in direzione dell’altare. In questo affresco si può ammirare una maternità che a mio parere è davvero straordinaria, modernissima.
Infatti alla compostezza statuaria che appartiene solitamente all’iconografia legata alla Vergine, nel lavoro in questione Maria appare umanissima, esausta avendo da poco partorito ma nonostante tutto desiderosa di accudire il figlioletto come ogni mamma.
Una madre, dunque, al cospetto del proprio figlio in fasce retto anche da un’aiutante guarda con estatica contemplazione.
Il gioco di sguardi fra il Bambino e la Vergine è un brano di altissima temperatura poetica: quell’incontro racchiude infatti lo straordinario mistero della vita che nasce.
L’umanità di Gesù, in questo senso, diventa ancora – iconograficamente – più vera, più autentica, perché passa attraverso gli occhi di Maria che è una donna.
Se il centro della scena è occupato da questo incontro di sguardi, il resto risulta caratterizzato da tantissimi particolari che non risultano affatto meramente accessori, come il coro di angeli che annuncia la buona novella, ciascuno dei quali pare avere un compito se non proprio un’identità, i pastori, uno dei quali ha su un braccio una pustola che farebbe alludere al sacrificio e alle sofferenze del Salvatore oppure alle precarie condizioni igieniche dell’epoca, guardano stupiti la scena in cui sono coinvolti.
Non meno interessante è la raffigurazione di San Giuseppe che, come da tradizione, viene rappresentato avanti con l’età (non tanto per una questione anagrafica, quanto per sottintendere l’esperienza) e addormentato in quanto, come recitano le Sacre Scritture, egli non è che il padre “putativo” di Gesù.
Tuttavia mi è sembrato di poter scorgere in questa raffigurazione non tanto un rilievo relativo alla “poca” importanza di questo personaggio in seno all’affresco, quanto un’allusione velata al sonno ristoratore, quello dei giusti. E infatti Giuseppe è un giusto. Un uomo che ha voluto credere oltre la razionalità, accettando per fede un compito che sfugge a qualsiasi logica. In questo senso appare evidente che il suo compito non è terminato, non è compiuto, ma durerà per tanti anni al fianco del Salvatore. Egli diventerà, infatti l’emblema del buon padre di famiglia.
Tutto questo è illustrato da Giotto con una capacità narrativa che non necessita di spiegazioni essendo di una evidenza straordinaria ed è capace di coinvolgere chiunque in un racconto per immagini che si fa spiritualità profonda. Buon Natale!
AUTORE: SIMONE FAPPANNI
NOTA. Immagine, credit: Wikipedia