MILANO. Sulla scorta dei numerosi e suggestivi quadri a tema “i flagellanti” esposti nella mostra di Francisco Goya a Palazzo Reale di Milano è possibile svolgere un approfondimento derivante dall’opera “L’eretico”¹di Delibes da cui sono poi derivate immagini rimaste nell’arte come documento visivo sulle differenze tra penitenti pubblici, fagellanti, condanne e i falò delle crociate medievali.
A questi si aggiungono poi gli spettacoli conosciuti e attuati sulla scorta Fideistica,² non di rado di matrice inquisitoria.
Le figure dei flagelli,³ si possono descrivere tramite alcune citazioni che raccolgono ciò che gli storici hanno raccontato da molto tempo su di loro e che quindi hanno influenzato la visione degli artisti che si sono successivamente cimentati nel dipingere scene di fustigazione verso impenitenti e di eretici.
In realtà, in qualche modo continuano ad essere pratiche ancora vive e sorprendentemente talvolta si sono trasformate in spettacoli cruenti destinati ad attirare curiosi animati da poco altro che sadismo: svuotato il rito dal forte significato religioso e ridotto a spettacolarizzazione, poco altro resta in termini contenutistici
Cit: da Delibes: “La fustigazione⁴ adottata come punizione da alcuni degli ordini monastici privi di prim’ordine, si è dovuta estendere a quelli che sono stati creati successivamente, al punto che le partite dichiarano come una delle facoltà di abati e priori quella di applicarla ai monaci per colpe che esistono commesso: “Fallire le Badesse o i Priori che i loro monges abbiano datato alcuni errori, “maguer siano piccoli, possono punirli dando loro delusioni, “secondo mandano queste regole, con le cinghie o con le pertiche, vogliono “che sia ordine sacro o non… , et questo devono fare di per sé mesmos “o mandare alcuni del loro ordine a farlo”
Ma col tempo, la disciplina non è diventata solo un mezzo ordinario di mortificazione della carne, a cui erano obbligati dalla regola coloro che entravano in ordine, come quella di San Francisco, ma trascende anche le persone che, non essendo costituite in religione, volevano in qualche modo imitare la vita di austerità e sacrificio di coloro che rinunciavano al secolo”.
La pratica, tuttavia, non è diventata vera e non ha acquisito importanza finché non è apparsa in Italia la setta dei flagelli, diffusa da lì in diversi paesi europei e i cui proseliti e dottrine hanno raggiunto il massimo sviluppo verso la metà del XIV secolo in occasione della peste nera che nel 1348⁵fece così terribili devastazioni nelle nazioni del continente e che in tal modo ha aggravato il movimento apocalittico di quella tendenza.
Posseduti da uno spirito di rinuncia, di penitenza nonché di disprezzo del mondo, quasi vicina al misantropismo⁶, questi formavano gruppi chiusi e i loro fratelli, vestiti di biancha tunica, percorrevano le strade di città e villaggi frustandosi fino a insanguinare le vesti bianche e cercando di convincere la gente che il sangue così versato si confondeva con quella di Cristo e con quella dei martiri.
Parafrasando la testimonianza di Delibes si può accreditare che questo esercizio era di maggiore rispetto alla confessione sacramentale per il perdono dei peccati; e in un certo periodo preferita ad essa.
Allo stesso modo l’acqua santa non produceva grazia santificante e, infine, che da allora iniziava il regno di un nuovo Vangelo.
La forte carica di suggestione⁷di queste pratiche ha determinato anche la sua rapida espansione ed ha costretto Clemente VI a bocciarla come eretica nel 1349.
Da quella data si può con certezza affermare che la setta si sia estinta.
Non cosi invece dell’uso della flagellazione⁸ come mezzo espiatorio delle colpe, cioè come penitenza pubblica o privata che continuò come elemento ormai radicato della coscienza collettiva, anche se non volontariamente scelto, ma più che altro imposto per via di suggestione/fanatismo religioso.
Vengono spesso presentati ogni anno, nelle processioni di Pasqua e di Vera Cruz; altre cerimonie, nelle rogative per calamità pubbliche.
Lo scopo atropopaico⁹ è qui evidente: l’irruzione entra prepotentemente nella gestione di questioni impattante o dirigenti la vita quotidiana, cosi come in altre pratiche penitenti nelle chiese, e infine, come mistica regola di rigida guida morale.
Queste ultime contrariamente alla pratica iberica, fuggendo dall’esibizione della loro fervore, puniscono il loro corpo in segreto, non tanto perché Dio perdoni i loro peccati, quanto per aspirare al perfezionamento del loro spirito e prevenire le tentazioni del diavolo. Contestualmente a questa pratica lontana da occhi pubblici, il berretto bianco di distinzione non veniva indossato, in luogo invece di altri accessori di “purificazione”.
In definitiva, come la si voglia considerare tale pratica, pubblica o meno che fosse, trattasi di pratica purificatoria nel primo caso, ascetica in senso pieno, nel secondo. La pratica dei flagellanti, già nel basso medioevo, come quella dei “dolens” ¹⁰nei riti funebri, hanno nella manifestazione processionale il loro fulcro di comunicazione che perde la traccia razionale per divenire, tramite percussioni ritmate e lamenti, quasi un mantra volto a generare “trans”, similmente al ballo della Taranta( o tarantella) la cui evoluzione in termini di coinvolgimento emotivo e spirituale è sempre in divenire e mai, razionalmente, completamente afferrabile.
LUCA NAVA (bibliografia su richiesta)