L’ARCHETIPO DELL’EROS NELL’ARTE

Antonio Tantardini (1829-1879) Faust e Margherita (Il bacio) (1861), fonte Wikipedia

MILANO. Il mito fondativo dell’amore occidentale può essere letto da una particolare angolazione, da una prospettiva ermeneutica,⁴ tentando per così dire un ribaltamento di paradigma simile a un sovvertimento delle credenze sull’argomento che consenta una considerazione più distaccata dall’esperienza soggettiva nel tentativi di rintracciare quali siano le dinamiche che, oggettivamente, muovono i singoli verso l’alterità e al tempo stesso vagliare la possibilità o meno   dell’emanciparsi dall’ossessione di ricondursi all’unità. Davvero il desiderio erotico ha come unico destino la riunificazione? C’è come univoca ragione la spinta del dualismo reale verso il plotiniano Uno originario?

Quasi sia un atto obbligato verso l’auto-​erotismo e l’auto-​sufficienza di una possibilità negata, che non ammette la scissione, la differenza, piuttosto che la complessità dell’alterità.⁵

Sembrerebbe che l’amore di questa accezione abbia come sfondo teleologico, la figura ideale della sfera forma finale rivalutata come presenza non solo ideale e che dunque sembra essere capace di appagare il desiderio.

La circolarità propria della sfera sul piano ideale, implicitamente marca una realtà psichica e nondimeno empirica, senza inizio e nemmeno una fine.

Esiste di contro un filone narrativo contemporaneo meno aderente alla narrativa mitologica a riguardo, e che dissente apertamente da questa folle rincorsa all’unità: l’amore non mirerebbe affatto a ricucire le ferite, piuttosto che a ripristinare una presunta unità originaria.

Al contrario, amare l’Altro per questa visione alternativa vuol dire “fare esperienza”, direbbe Heideger, di un trauma coscienziale, vera e propria frattura insanabile una volta avvenuta, che sottrae una parte molto importante di chi, questa frattura, la sperimenta.

E Tante più le volte è sperimentata, tanto piu minata e svuotata risulta la propria identità, perché il sentimento d’amore, se autentico, destabilizza e sconvolge la padronanza del sé deprivandolo di una capacità d’amare a posteriori, la quale non tornerà più, ciclicamente, come se si trattasse di aspettare tempo similmente all’avvicendarsi delle stagioni.

Cosi intesa l’esperienza amorosa, si configura come il sentire la propria identità spezzata e patire questo squarcio nella propria consistenza di individui singoli, quindi separti ( ex-sisto).

La frattura non separa solo dall’altro, divenuto totem e oggetto erotizzo, ma soprattutto da se stessi.⁶

Diviso come è l’amante in se, è come un cavaliere disarcionato. l’esperienza amorosa in definitiva comporta un uscire da sé, (extaticon), un’azzardo che ha come esito probabile, il dissolvimento.(immagine 2).

Vista con maggiore oggettività dunque, la dinamica configura come dare e avere, con netta prevalenza del primo.

Di Eros, figlio di Poros e penia⁶½, si fa allora esperienza sotto forma di un “cedere” cosi come dell’essere strappati rispetto alla propria identità, proprio nel momento in cui tutto di quella fantasmatica dimensione, sembra invitare e ricondurre a un sé smarrito, dunque divenuto incapace, per assurdo, di accogliere e afferrare il sentimento d’amore altrui.

In definitiva il fatto amoroso è esperienza, quella che si sperimenta nella tradizione occidentale, di una deprivazione senza possibilità di appropriazione.

Questo secondo il modello del pensiero della classicità, è stato fino al XX sec. validato, inscrivendo eros nel novero di colui che mostra una passività di fondo invece che nella propositivita’ dell’atto ma di contro, proprio per questa passività, garantendo un rinnovamento continuo di pathos dell’anima senza il quale, dell’amore e delle sue pene inflitte o delle sue gioie elargite, davvero poco si capirebbe, davvero nulla si coglierebbe.

Esiste però un rischio derivante dalla tendenza nella deriva individualista contemporanea, nella quale sembra risiedere proprio la tendenza opposta.

Cio’ che serpeggia nella convinzione del pensiero del XXI sec è la cosciente volontà di rinnegare tale condizione patetica, finendo per sostituire a quella innata tendenza verso “l’altro/a” con l’individuale ( non l’uno dell’unità) esclusivo, imperativo categorico, calato nell’azione positiva( contrariamente all’azione del pathos),agita tramite una concettualizzazione di matrice positivista, di espungere dall’individuo tale carattere archetipico.

Cosi inteso il :venir meno”, mancanza e necessità finiscono per coincidere, rendendo così un soggetto, l’unico soggetto; idealmente ( o illusoriamente?)autonomo, praticando in definitiva, un’ amputazione, se cosi si puo dire, importante dell’anima, dietro la spinta edonistica ipertrofica.

Eludere l’aspetto generato dal pathos, dalla tendenza verso l’alterità, pur con tutti gli aspetti generanti una qualche frizione, significherebbe conseguentemente un mancato incontro.

Poiché l’esperienza amorosa è possibile solo in quanto sperimentazione di questa mancanza e distanza, che separa da sé stessi in primis, e dall’Altro in secundis, ne conseguirebbe ( condizionale obbligato)che, separando condizione psichica e quella fisica, calata nel contesto empirico, si inibirebbe quella erotica, principale motore generante l’evento della relazione.

La questione merita d’essere approfondita, iniziando il tentativo dalle manifestazioni empiriche di tale condizione interiore: l’abbraccio, la carezza, il bacio, sono solo i principali aspetti esteriori fra altri, che ricalcano una condizione interiore.

Il mito dell’androgino evocato nell’icipit, comprensivo anche della maledizione di Zeus, diventa allora l’unica possibilità affinché l’amore possa essere.⁴ L’amore dunque sembrerebbe aver bisogno della distanza che innesca prima e poi istituisce la relazione con l’Altro e ne garantisce il mantenimento nella sua alterità, e quindi mai raggiunta pacificazione.

Questo stato è quello in cui le figure nella storia della rappresentazione artistica trovano maggio favore e testimonianza, in virtù di uno stato esistenziale estraneo alla presenza di se e inconsciamente più accessibile.

Se il desiderio si genera nella distanza, non solo emotiva ma anche fisica, ( che psicologicamente si equivalgono e sono ricondotte sotto un unica immagine), allora tutte le forme dell’eros non possono vivere e aumentare nella loro intensità se non grazie alla distanza istituita.

Le manifestazioni d’amore esteriori come : la carezza, l’abbraccio, il bacio di cui sopra( oggetto di trattazione nei prossimi art.) rappresentano l’effetto e le posture fisiche, di riflesso di animistiche ( ma con un certo grado di autonomia)della spontanea mozione, reciproca, dell’uno verso l’altra, attuandosi una con-​mozione, appunto, che trova un passo importante nella ri-unificazione originaria, attraverso il ricongiungimento inizialmente fisico.

Proprio la ricerca di quel “altro” che, come esplicitato poc’anzi si presenta nella sua differenza, rimane quasi sempre irriducibile all’unità.

Questo,è all’origine e causa di mantenimento del pathos: qualora l’unità perfetta( posto che sia realizzabile e accessibile)dovesse raggiungersi, allora sarebbe la stasi e l’implosione amorosa sarebbe inevitabile.

Ogni espressione esteriore dell’affetto, concretizzazione del sentimento amoroso promuove comunque un moto di decentramento del se’ individuale e di indotta inclinazione nel verso “dell’Altro” che resta meravigliosamente inafferrabile, soprattutto nei suoi vissuti.

Amare dunque si configura come un sogno impossibile di ricongiunzione totale; è il cuore di questo mythos che alimenta e governa, talvolta in modo carsico, le relazioni affettive di ogni genere e in particolare quelle amorose.

Proprio a questo desiderio di unità atavica e complementariamente a questo tentativo di azzerare ogni distanza, ostinatamente, il nome di “amore” è quello che più sinteticamente, si addice a riassumerlo.⁷

Il pensiero comune o doxa⁷½ che dir si voglia, a matrice romantica dell’amore, continua a misurare questo sentimento e questa relazione in base ai criteri di un fervore simbiotico, di un’assimilazione reciproca, di un’omeostasi raggiunta o miraggio da raggiungere; comunione assoluta tra l’uno e altro/a, possibile solo dietro una tendenziale abolizione impossibile(?) della distanza e della differenza.

La fatica inutile di andar “verso” l’altro non è se non il tentativo di rimarginare quella ferita originaria inferta nel mito da Zeus, consentendo cosi il riscatto di se tramite l’Uno primordiale. A questa unità desiderata sia pure inconsciamente e implicitamente, afferisce ogni gesto affettivo o amoroso citato in precedenza.

Tutto in questo infinito rincorrersi in giochi di riconoscimento per via di saturazione del bisogno dell’anima, conduce al sembiante di un pathos che genera desiderio e che gli amanti sperimentano, come si sperimenta la vita.

In definitiva però il fatto che non si sappia fuoriuscire da questo incantamento erotico degno di Armida⁶, la logica plurale del Due, la relazione tra i distinti ossia dell’uno e l’altro/a, resta purtroppo marchiata e vissuta con dolore, (e nella mitologia questo assume grande significato) dallo stigma del castigo divino, segnata da un’ingiustizia intollerabile: la volontà di emancipazione appunto dall’unità originaria e il riconoscimento individuale, cui però segue la consapevolizzazione della non autosufficienza esistenziale..

Su questa idea di redenzione dalla dannazione di sofferenza causata dalla mancanza e della distanza, si fonda tutto un corpus edonistico del desiderio, inteso come mancanza da soddisfare e come vuoto da colmare.

Questo avviene come se la tragicità costitutiva dell’origine del desiderio potesse essere ridotta sull’appagamento meccanico e pneumatico di un bisogno.

Piu esplicitamente, prendere l’Altro, possedere il suo corpo, sapere o saturare temporaneamente il suo desiderio, scorgere il suo enigma, contenerlo nella ritrovata quanto asfittica rotondità della sfera…..ma per quanto?

Avere l’Altro per se, il quale incarna un totem emozionale oltreché eminentemente fisico, anziché essere ex-​posti, appunto posti fuori da quella sfera, nell’apertura / rottura del rapporto potrebbe dare una momentanea cessazione del bisogno doloroso, ma appunto è soluzione momentanea ed effimera.

L’inganno è quello credere di poter assimilare l’Altro per non vederlo distanziarsi, e quindi alzare la “temperatura del pathos” anziché misurarsi faticosamente con la sua libertà e alterità irriducibili per costituzione e nel caso, arrischiandosi nell’esperienza di un’inclinazione-​”verso”, di un’estasi, un “porsi-fuori-da” e di una alterazione di sé che in definitiva è ciò che aumenta il carico tragico della finalità amorosa.

LUCA NAVA