ROMA. “Lavoro inutile” è il titolo della personale di Jonathan Vivacqua presso White Noise Gallery (Via della Seggiola, 9) curata da Eleonora Aloise e Carlo Maria Lolli Ghetti.
“La storia recente – viene spiegato nel comunicato che illustra la rassegna – ha costretto ciascuno di noi a ripensare al proprio ruolo all’interno della società. Un’assunzione di responsabilità inattesa, sette miliardi e mezzo di persone uscite contemporaneamente da una sorta di seconda adolescenza collettiva.
In questo contesto abbiamo assistito alle conseguenze del più estremo relativismo culturale ed etico: le bolle sono scoppiate, in molti sistemi nazionalisti ha prevalso la salute economica su quella pubblica, i muri sono caduti svelandone altri, più alti e più robusti.
Tutti noi li abbiamo riempiti come potevamo, quei giorni rabberciati. Mentre galleggiavamo incerti in un immobilismo colmo di preoccupazione – a tratti liberatorio per la sua ineluttabilità – le falle dei meccanismi produttivi erano invece in ottima forma.
È un racconto di straordinarie conquiste quello che va dal sistema agricolo alla rivoluzione digitale, che nel suo rapido incedere ha raggiunto traguardi inimmaginabili, lasciando però spesso l’incombenza di rinsaldare i principi dell’umanesimo alle pagine di storia e non al futuro.
Ed è così che nel momento di maggior progresso, confortati da una routine su scala mondiale (come se un’ipotetica forbice dall’eventualità migliore alla peggiore fosse universalmente conosciuta, accettata e inamovibile) ci siamo accorti di essere impreparati e incastrati in un modello socio-economico che eravamo pronti ad abbandonare seduta stante, in nome di un ritrovato spirito di autoderminazione.
Il senso di inadeguatezza è la quota più rilevante dello shock, ma è anche terreno fertile per coltivare l’autocoscienza, ci siamo detti. Riconsiderare il proprio ruolo nel processo produttivo significa intendere il lavoro non solo in termini di attività economica, ma soprattutto come investimento personale in un’idea ampia di futuro, non utilizzando più come parametro e moltiplicatore unico il massimo risultato nel minor tempo.Questo slancio, però, è durato meno del previsto. La nostalgia per il modello pre-lockdown è tornata più forte che mai, in un atto estremo di difesa verso il cambiamento.
In questo solco si muove Jonathan Vivacqua (Como, 1986), indagando la relazione fra questi elementi contraddittori e l’equazione che li definisce. Nella sua ricerca utilizza gli scarti dei cantieri, residui privi di valore ma che hanno contribuito silenziosamente alla realizzazione di un progetto.
Jonathan da un lato ne esalta la forma eliminando la funzione, dall’altra questi elementi inevitabilmente portano in eredità l’iconografia del lavoro invisibile, privo di ogni pathos ma indispensabile alla tenuta strutturale.
La mostra
Le opere in mostra raccontano con pungente sarcasmo e malinconia due lati della stessa medaglia: la dignità della fatica e il lavoro percepito come strumento asettico.Il percorso inizia con un mosaico di ispirazione classica generato da migliaia di distanziatori per la posa dei pavimenti.
Realizzarlo prevede un processo estenuante che pone l’accento sulla dicotomia tempo-produttività. La necessità di un tempo maggiore per compiere un lavoro è considerato un disvalore. Una volta completata, sull’opera campeggia la scritta “Lavoro inutile”: è quindi essa stessa ad autodenunciarsi con ironica rassegnazione.
Nella seconda sala, l’impatto del lavoro autoreferenziale genera un effetto domino sull’intero sistema.“You are a fucking bodybuilder” è un bilanciere di cemento e pietra, impossibile da sollevare. Il body building è il simbolo dello sforzo un po’ spaccone ed egoriferito, privo di ogni connotato spirituale e funzionale, in cui l’unico obiettivo è l’autocelebrazione.
Nella stessa stanza, viene posto in stretta relazione con la serie “Panorama”: vedute naturali formate da piastrelle, che come enormi pixel impediscono la messa a fuoco di ciò che rappresentano.Una nostalgica miopia visiva e concettuale, amplificata dal profondo blue del pavimento della stanza.
Jonathan termina il percorso con “Pausa”, una grande installazione al piano inferiore che chiude il cerchio cambiando completamente registro, passando dall’intelligente leggerezza ad un poetico intimismo. Badili autoportanti campeggiano lungo la sala, affaticati e immobili in attesa del ritorno dell’uomo. “Pausa” è una richiesta, una necessità e una speranza”.
NOTA. Testo virgolettato e immagine: courtesy of White Noise Gallery.