MILANO. Susanna e i vecchioni. È un dipinto antico, visionario. Lo ha eseguito una ragazza di soli diciassette – sì diciassette – anni nel 1610. Si chiamava Artemisia Gentileschi. Forse con qualche aiuto del celebre padre, Orazio Gentileschi, ma non è questo il punto per scendere in una controversi attributiva che ci porterebbe lontano.
Il punto è che davanti a lei il mondo dell’arte barocca si stava per inchinare visto il suo talento ma, di lì a poco, la sua vita verrà sconvolta da uno stupro che resterà sostanzialmente impunito. Anzi, durante il processo verrà persino torturata e costretta a visite ginecologiche pubbliche per accertare se l’orrendo fatto fosse davvero accaduto.
E alla fine del processo, il violentatore fu condannato, se così possiamo dire, a una pena particolare: a scegliere, a suo piacimento, se abbandonare Roma o a essere incarcerato. Inutile dire quale fu la sua scelta. Resta però questo dipinto e tutta l’eredità artistica di Artemisia a testimoniare quanto sia barbara la violenza, e la violenza sulle donne in primis.
Di questo dipinto sorprende lo sguardo terrorizzato della ragazza che con le mani cerca di allontanare la minaccia dei due uomini intenzionati a usarle violenza sussurrandole, come lascia intendere l’artista, parole squallide.
E’ un grido straziante, un pugno nello stomaco che deve far riflettere, come penso sia giusto oggi, 8 marzo, perché la Festa della Donna non sia un momento sterile di “consegna”, più o meno forzata” di mimose alle nostre mamme, mogli, sorelle e amiche, ma un momento di riflessione autentico.
AUTORE: SIMONE FAPPANNI
NOTA. Per approfondire lo studio del dipinto e le questioni attributive, rimando al mio libro Ti racconto Artemisia Gentileschi, l’artista del telos, cliccando qui