L’ORO DI GIOVANNI: IL TRECENTO RIMINESE IN MOSTRA A PALAZZO BUONADRATA

Croce di Mercatello Giovanni da Rimini, press kit uf. stampa della mostra

RIMINI. La mostra evento a Palazzo Buonadrata “L’Oro di Giovanni”, prende avvio dal complesso salvataggio della splendida croce dipinta della Chiesa di Mercatello sul Metauro, aggredita dai tarli xilofagi e oscurata da un vecchio restauro che ha finito con l’ingiallirsi dopo 50 anni. Accanto al monumentale crocifisso, l’unico firmato e datato (1309 o 1314) da “Iohannes”. Aperta fino al 7 novembre a cura di Alessandro Giovanardi, vede esposte altre tre grandi croci attribuite al Maestro riminese, noto dai documenti anche come “Zagnonus” cioè “Giovannone”, latinizzazione del dialettale “Zvanòn”.

Giovanardi, cosa suggerisce la riscoperta della figura pittorica di Giovanni? 

«Giovanni è un pittore di altissima sofisticazione formale che non deve invidiare nulla a Giotto: raffinatissimo, commovente, aristocratico, spirituale. Per esaminare gli esiti del suo magistero, che fonda la cosiddetta Scuola Riminese del Trecento, vengono esposti anche il frammento di croce del fratello Giulano (Julianus) e un Crocifisso del Maestro di Montefiore, più tardo esponente della Scuola che semplifica quell’immensa poesia in un educato decorativismo. La croce di Mercatello non è stata più esposta a Rimini dal 1935 e così quella proveniente dalla Moretti Fine Art Gallery di Londra. Il Crocifisso di Talamello non scende più a valle dal 1995, e per l’occasione ha ricevuto anch’esso un intervento conservativo. Questa mostra offre non solo la possibilità di vedere riunite tutte le grandi croci dipinte dall’artista riminese, ma di avvicinarle allo sguardo senza ostacoli, potendole godere come se fossero nel laboratorio del maestro». 

Quale importante occasione rappresenterà questo sguardo inedito sulla sua opera?

«Una visione tanto ravvicinata all’opera del Maestro permetterà di verificarne meglio l’evoluzione artistica e culturale: Giovanni che realizza a Mercatello la croce commissionata dal padre francescano Teobaldo ha in mente l’esempio elegantissimo e maestoso di Giotto che, nella San Francesco della Rimini malatestiana (l’attuale Tempio), aveva realizzato un mirabile prototipo a cui ispirarsi. Non molto prima Giovanni doveva aver realizzato la croce della Moretti Gallery e quella del Museo della Città, donato da Adauto Diotallevi, ma proveniente con probabilità dalla Chiesa di San Giovanni Evangelista (nota come Sant’Agostino). Diverso, per certi aspetti stravagante è il Crocifisso di Talamello: arcaizzante, con una carpenteria più sobria e severa, appare ben più moderno e “umanistico” nella sua cristologia scultorea e nella sua antropologia sentimentale che si avvicina a Giuliano. Il magistero del grande pittore toscano è accolto da Giovanni con uno sguardo libero, così come liberamente guarda verso Bisanzio».

Con quali importanti esiti?

«Direi che tutta l’impostazione, sia tecnica, sia poetica di “Iohannes” dipende dalla più sofisticata cultura costantinopolitana dell’età dei Paleologi: sulla croce riminese “Diotallevi” e quella londinese “Moretti”, le iscrizioni epigrafiche del nome di Cristo sono in lettere greche come nelle icone coeve. Da queste ultime dipendono non poche tavole dipinte dal Maestro riminese: è il suo vantaggio sul “latino” Giotto, il maestro che il riminese accoglie senza tradire la sua sprezzatura nobiliare fondata sul linguaggio aulico bizantino. Giovanni opera in una Rimini aperta sull’Adriatico balcanico e orientale, in un momento in cui una comune lingua visiva legava le due sponde che si influenzavano reciprocamente in architettura, così come in pittura e in scultura, dalle terre venete fino alla Puglia. È lo stile “gotico-bizantino” di cui scriveva Vladimiro Zabughin nel 1923: il nostro “Zagnonus” ne fa occasione per una personale riscoperta dell’antico in senso non espressionista, bensì silenzioso, vorrei dire “esicasta” (da “hesychia”: quiete)».

Quale importanza rivestivano le croci monumentali nell’arredo dello spazio sacro e nella liturgia?

«Confitte su un tramezzo che nella Chiesa divideva il luogo riservato agli ecclesiastici al popolo di Dio, come nell’iconostasi orientale, le Croci potevano essere poste anche all’ingresso di singole cappelle, al cento di un’alta trave o appese al culmine dell’arco. Il mistero cosmico del sacrificio di Cristo, introduceva a quello eucaristico offerto, per i vivi e per i morti sugli altari che ripeteva in forma incruenta il potere della passione di Gesù. Davanti ai crocifissi si celebravano riti particolari o si tenevano omelie dedicate. Lo sguardo dei credenti s’innalzava così dal sangue versato sul Golgota dove riposava il teschio di Adamo, fino alla forma eterna e benedicente del Cristo, al suo aspetto glorioso, passando per il pianto purificatore della Vergine e dell’Evangelista Giovanni, dipinti ai lati delle croci dipinte»».

AUTORE: MARCELLO TOSI