LUCIO FONTANA E SUOI VORTICI DI LUCE

Lucio Fontana in una fotografia di Lothar Wolleh. Fonte Wikipedia

MILANO. Lucio Fontana allestì, nel 1949, il suo primo “Ambiente spaziale”, alla Galleria del Naviglio, a Milano. Definisce questo ambiente con le note, “Né pittura, né scultura, arte immediata”. Del resto, l’immediatezza, è stata sempre una caratteristica dell’artista italo-argentino e anche in questo ambiente diventa protagonista, in più si aggiunge la suggestione libera dello spettatore coinvolto dal nuovo mezzo usato da Fontana, la luce.

Nello specifico, questa prima opera presentata nella Galleria milanese, era un ambiente con elementi spaziali a luce scura, poeticamente suggestivo, un’atmosfera lunare: si entrava in una specie di grotta, dove la luce violacea rendeva spettrali, non c’erano confini, tutto riportava alle zone dell’inconscio, dove lo spazio non ha un centro e la superficie non esiste, insomma, un’altra dimensione, oltre il tempo, in una specie di viaggio all’interno.

Nel 1951 l’artista realizza, con dei tubi al neon, un groviglio luminoso, aereo, sospeso, lungo 200 metri, che sistemerà all’ingresso del Palazzo dell’Arte alla IX Triennale, a Milano. Abbiamo detto un groviglio, un vortice, che diventa una grande sigla, dinamica, coinvolgente, si passa, così, da una concezione barocca, senza limiti, al segno-gesto luminoso, più essenziale e lineare.

Nel 1952 Fontana esegue una decorazione al neon, per un teatro, arricchendola, nel fondo, con luci-segni spezzate che dinamizzano ancora di più l’opera. Ovviamente, nella realizzazione di queste opere complesse, l’artista si avvale della preziosa collaborazione di architetti, specialmente Luciano Baldessari. Oltre al neon, Fontana propone ambienti eseguiti anche con l’acciaio, dove i segni luminosi, con angoli acuti, vengono a trovarsi in relazione con i fori del fondo, in un richiamo ritmico che suggerisce movimenti spaziali. Altre volte, per diverse decorazioni, libera il linearismo al neon in più larghi grovigli che assumono anche analogie musicali e che, comunque, vengono evidenziate in un’altra celebre sua frase, “Faremo apparire nel cielo: forme artificiali, arcobaleni di meraviglia, scritte luminose”. Sicuramente, nel percorso formativo di Lucio Fontana, vanno annoverati questi artisti per aver inciso sul suo linguaggio: Van Gogh, Boccioni e Kandinsky. Il primo per il colore-luce, il secondo per il dinamismo plastico, il terzo per l’astrattismo concreto.

Di Vincent Van Gogh ha sentito il valore frenetico dei tocchi coloristici dissociati, in funzione di una luminosità intensa e di un effetto visionario, la libertà da ogni schema e la bruciante tensione, quasi gestuale, dell’atto pittorico. Da Umberto Boccioni la necessità di coinvolgere lo spazio circostante, di liberare la forma nella continuità dello spazio. Di Vasilij Kandinsky il fatto di essere stato l’inventore dell’arte non figurativa, ma con premesse di un Espressionismo lirico.

Ed è proprio questo Espressionismo lirico, risolto astrattamente, ad attrarre Fontana, perché non è annullata la possibilità emotiva, l’esaltazione di un rapporto con l’inconscio, di origine, dunque, irrazionale. Infine, possiamo riassumere la poetica di Fontana nella sua frase, forse, più famosa, “Né pittura, né scultura: forme, colore, suono attraverso gli spazi”.    

ALFONSO TALOTTA