PERSONALE DI VITO CAMPANELLI

VENEZIA. Personale dell’artista Vito Campanelli presso la Galleria Spazio Malvasia. Vito Campanelli, un brivido nello spazio della tela: l’attualità e la forza di questo pittore veggente, di estrosa sapienza concettuale, stanno tutte nella sfida a ciò che si considera inesprimibile. Lui sì, riesce a cogliere le intermittenze simultanee del respiro, le indecifrabili connessioni tra le sorti. Lo pervade un’ansia inesauribile di ricerca, una sete pervasa di sortilegi visivi. L’eccitazione dell’agire – folle, imprevista, incoercibile – sale fino a far risuonare le sfere celesti: culmine dell’attenzione, allerta dei sensi. Arousal.

Ciò che balza agli occhi, in queste tele assolute, è l’intensità della pronuncia, miracolosa come una nascita che emerga da preludi catastrofici. Per Vito l’evento artistico è organo corporeo, flusso sanguigno, materia. La partenza, sul confine di noi, costituisce il mistero. Per fortuna sua, e nostra: perché nel suo danzare in bilico, ogni verosimiglianza è un inganno, la vera voragine in cui sarebbe erroneo precipitare.

L’artista si abbandona alla forza travolgente del vortice. Nella qualificazione organica di quella pelle profonda, percorsa da un brivido sensuale, si rivela la genesi del tutto. È il travaglio di una germinazione perpetua, e assieme il rito di ogni iniziazione: luce che trapunta l’incandescenza di quel blu, flusso di particelle mai identiche a se stesse. La pittura chiama a sé la pittura, in uno scenario immateriale in cui non si riconoscono soggetti, ma solo le loro interazioni. Linguaggio ideale per un cambio radicale di paradigma, orizzonte olistico.

Il campo della tela, che è spazio, non luogo, appare percorso da salienze emotive, da necessarie contraddizioni: quasi le scintille che balenano dallo sfrigolìo di una pietra focaia. Ed è in quel punto, nella smagliatura della tinta agglutinata, che appare la sorpresa, il coup de théâtre: forse un inciso, la coda di una cometa, vitale mescolanza di azzurrità e humus. Fuoco di ferro e fosforo, gallio e indio; fuoco blu. 

Spesso gli sviluppi più fruttuosi – come amava ripetere Karl Heisemberg, uno dei padri della fisica quantistica – si verificano ai punti d’interferenza tra diverse linee di pensiero: come strati di pittura, blu e ancora blu, gli eventi stessi possono coesistere in stati sovrapposti, generando una realtà complessa. Nasce blu un grande pensiero, sul ciglio di una comprensione che tutto tiene.

Campanelli prende sempre posizione per il pericolo, scende al fondo. Ovunque è altrove. L’apparente stato di quiete, nel blu, insiste su un inganno percettivo; il risveglio genera delle, sia pur lievi, alterazioni negli effetti dinamici delle forze in campo. Fra lo spazio e il ritmo del braccio che dipinge, su quel margine che è volo e strapiombo, azzardo estremo. La tinta penetra l’artista come seme nella terra: che luminosa follia aver generato l’amore, sulla spessa cenere dei giorni.

Infine ci è chiaro, i lavori di Campanelli sono opere di desiderio nell’accezione lacaniana, laddove il desiderio è la parte più intima di ogni uomo e, nello stesso tempo, a lui stesso la più sconosciuta. Forza che non si placa con la soddisfazione dell’impulso, condizione assoluta che rende vivi, in allerta, aperti alla possibilità, all’imprevedibile.

Dagli occhi al respiro, dalle ciglia alle labbra: è anche rabbia talvolta, ribellione che dilaga sulla tela, furore indistinguibile dall’urlo; il blu profondo comporta il passaggio del confine che ci separa da noi, dalla nostra presenza materiale. Tuttavia è anche stato di grazia, l’essere colti da un esistere che non riguarda più il soggetto; la rosa di Nessuno di Paul Célan, l’accadere e l’impossibile mischiati contro l’oblio. Il gesto, allora, si fa liberazione di un’energia che esiste di per sé, e le opere sorgono soprattutto per l’urgenza di far uscire quella grazia. Quasi un’eruzione.

È l’artista che appartiene alla sua opera, e non viceversa: increspature, lampi, lacerazioni percorrono il suo agire come lame taglienti. La ferita appartiene anch’essa a questa materia fremente e trasmutata, senza riparo, ed è ferita di tutti. Ciò che resta nel silenzio, mentre la tinta si asciuga, è – per noi che la contempliamo – più che un abbraccio.

Francesca Brandes