Don Sandro è un sant’uomo. Tutti lo conoscono e ammirano per la sua infinita generosità. Ama i giovani a cui sta dedicando la sua vita e non c’è dubbio che può essere considerato l’erede morale di San Giovanni Bosco.
Lui non cerca ribalte o applausi e neppure gradirebbe questo accostamento. Anche se non è affatto ardito come potrebbe sembrare. Meno ancora cerca la ricchezza. La sua unica proprietà materiale è la tonaca che indossa.
La indossa sempre e comunque. E con orgoglio. “Non si può andare al lavoro in pantaloncini corti e canottiera, ecco perché la metto sempre. Posso mai dire messa svestito?”, dice con il suo brillante accento toscano a chi gli chiede le ragioni di una scelta che a molti (a troppi?) pare difficilmente comprensibile.
Quando ha visitato la cattedrale di Cremona e ho avuto l’onore di guidarlo fra navate, altari, dipinti e affreschi di questa meraviglia, mi ha candidamente confessato che ama l’arte sacra.
“Quella classica però. Quella moderna non mi piace. Possibile che al posto di farmi un Cristo in Croce, l’artista, se possiamo chiamarlo così, mi presenta due blocchi di marmo, uno più chiaro e più uno scuro e il passaggio di sfumatura dovrebbe indicare la crocifissione?”. Posso mai dargli torto? Vorrei difendere la “categoria” degli artisti, ma sul Sacro faccio fatica.
Voglio dire: questo tipo di arte dovrebbe sostenere il messaggio evangelico, rappresentarlo in maniera chiara e verosimile, anche ai non credenti. Un tempo molte opere nelle chiese venivano usate per spiegare la Parola di Dio a chi non sapeva né leggere né scrivere.
Le spiegazioni accompagnate dalle immagini rappresentavano e rappresentano un mezzo efficacissimo per affrontare anche argomenti particolarmente complessi.
Ma anche a un critico d’arte risulta difficile legare certe immagini al messaggio evangelico che dovrebbero rappresentare.
Ammiro le avanguardie, apprezzo in modo incommensurabile gli artisti che sperimentano, tanto che ho persino scritto con Elena Gavazzi un libro sulla sperimentazione (Experimenta, Immaginaria edizioni, ndr), ma forse non sarebbe il caso che una certa arte sacra riprenda maggiore contatto con lo scopo di fondo che la distingue e caratterizza? Non c’è il rischio che si crei una “distanza” troppo ampia tra messaggio e destinatario che possa, in qualche modo, rendere “quel” tipo d’arte sacra, poco sacra?
AUTORE: SIMONE FAPPANNI © RIPRODUZIONE DEL TESTO RISERVATA