QUANDO LE SCENE MACABRE DIVENTANO OPERE D’ARTE

CREMA (Cr) Altro che scheletri nell’armadio: al Museo Civico di Crema e del Cremasco (http://www.museocrema.it/), le “scene macabre” fanno bella mostra di sé in galleria, tra le collezioni permanenti.

Per ammirarle basta raggiungere la galleria al primo piano, dove le quattordici figure accompagnano il visitatore suscitando curiosità e inquietudine. Lungo la parete s’incontrano un mendicante, un mercante, un cerusico, gentiluomini e nobildonne, comandanti e personaggi togati, per finire con chierici e imperatori. In posa con grazia innaturale, si distinguono per abiti e accessori, dipinti con minuzia sulle ossa scarne.

Tra le mani stringono attrezzi di lavoro, stoffe preziose, simboli del potere e oggetti appartenenti alla vita terrena, quasi non volessero abbandonarla. Testimoni di una tradizione religiosa e popolare nata sul territorio lombardo, le “scene macabre” risalgono alla prima metà del Settecento e costituiscono un unicum per qualità e completezza, che già riscosse l’attenzione di storici e cronisti dell’epoca. Tra questi Bernardo Nicola Zucchi, abate cremasco autore di una dettagliata cronistoria del territorio recentemente oggetto di studio e pubblicazione della Società Storica Cremasca. «Nel 1739 descrive per la prima volta gli scheletri, provenienti dalla chiesa di san Bernardino e tuttora proprietà della diocesi di Crema», spiega Alessandro Barbieri, conservatore museale. «In origine le “scene macabre” erano collocate in sacrestia o nelle stanze adiacenti, per essere esposte solo in particolari occasioni, come il Triduo dei morti. Si tratta di una cerimonia che si sviluppa all’inizio Settecento e nasce nella chiesa di san Giuseppe a Brescia, casa madre dei frati minori osservanti .

La cerimonia si diffonde in Lombardia, specialmente nel territorio bergamasco, nel bresciano e lungo la sponda veronese del lago di Garda». Con il termine “triduo” s’intendono tre giorni dedicati alla preghiera per le anime del purgatorio che precedevano la domenica di Septagesima, circa il settantesimo giorno precedente la Pasqua. Segnavano l’inizio del Carnevale, inteso come periodo di preparazione alla Quaresima. «Durante il Triduo, c’era l’abitudine d’invitare personaggi di spicco per sermoni incentrati su temi apocalittici e legati al concetto della morte».

La cerimonia era finanziata principalmente dalla classe media, in particolare commercianti e artigiani, che spesso compaiono tra i soggetti raffigurati. Anche l’allestimento dei luoghi sacri veniva ripensato per l’occasione: «Come evidenziato nello studio pubblicato sull’edizione 2019 di Insula Fulcheria, a firma di Immacolata Russo, in chiesa venivano create zone d’ombra e di luce, simbolo del passaggio tra la morte e la vita. Anche l’abate Zucchi descrive la scena nei suoi diari: le pareti erano coperte da paramenti effimeri scuri, ornati da cascate di fiori bianchi, che scendevano lungo il colonnato. Le “scene macabre” venivano probabilmente collocate in corrispondenza della via crucis, a coprire le tappe che avrebbero successivamente accompagnato il periodo di Quaresima».

La disposizione delle tele veniva orientata in base all’ingresso della chiesa, per accompagnare il percorso del visitatore verso l’abside. In alcuni casi veniva allestito un catafalco, struttura temporanea in legno o cartapesta decorata con candele, posizionata a corredo della raggiera eucaristica. La collezione cremasca si distingue per buona conservazione e pregio pittorico, spiccando tra gli esempi rinvenuti quasi unicamente sul territorio bergamasco: «a Gandino, in val Seriana, sono conservate una quarantina di figure analoghe, benché più stilizzate – aggiunge Barbieri – una simile si trova in val Brembana, a Romano di Lombardia e al museo diocesano Bernareggi di Bergamo. Nella stessa città si trova un ciclo ottocentesco, presso la chiesa di Santa Grata Inter Vites del pittore Paolo Vincenzo Bonomini».

Dal punto di vista compositivo, le figure denotano una grande cura alla profondità prospettica, accentuata dalla nicchia dipinta alle spalle degli scheletri, il cui piede spesso “sporge” dal cornicione dipinto a fondo tela. L’attenzione ai particolari si riscontra sia nella postura dei soggetti sia nell’abbigliamento, ritratto con dovizia di particolari e gusto per i dettagli. Tra le incognite rimane il nome dell’autore: «Forse un pittore lombardo – ipotizza Barbieri – ma potrebbe trattarsi di un artista proveniente da territori limitrofi. Di lui conosciamo solo la bravura, che emerge dalla complessità dell’architettura disegnata, la cura dell’anatomia e dei dettagli che connotano ogni singolo personaggio». Affidato dalla diocesi al Museo Civico nel 1960, il ciclo pittorico richiama la danza macabra medievale, «in cui la morte, ritratta sotto forma di scheletro, accompagna nell’aldilà personaggi viventi più o meno celebri, accomunati dal destino comune», prosegue Barbieri. «Nel nostro caso il concetto è diverso: gli scheletri della collezione cremasca sono un esempio di “morte secca”, abbigliata con i costumi dell’epoca, quasi a voler sottolineare come nemmeno la morte riesca a livellare le differenze sociali».

AUTORE: Lidia Gaberscik Gallanti

NOTA. Il testo è stato pubblicato su “Mondo Padano” del 19 febbraio 2021- pag. 21. Si ringrazia il direttore del settimanale per l’autorizzazione a inserire l’articolo nella sua interezza in queste pagine.