
ANGHIARI. Si situa come una ponte tra Romagna e Toscana, a cura dell’Associazione Nazionale Case della Memoria, la grande mostra dedicata all’universo femminile aperta fino all’8 marzo “Storie di Donne. Da Albrecht Dürer alla contemporaneità di Ilario Fioravanti”.
Al Museo della Battaglia e di Anghiari, Palazzo Taglieschi ad altre sedi storiche come la chiesa di Sant’Agostino e Palazzo Pretorio, decine di opere di maestri quali Dürer, Jacopo della Quercia, Giovanni dal Ponte, Goya, Manet si offrono alla visione accanto alle opere scultoree di Fioravanti che rivelano il suo profondo legame con la spiritualità e la tradizione figurativa del Rinascimento.
«Una piacevole scoperta e una sorpresa, dice Diletta Tosi, nipote dell’artista cesenate e curatrice della Casa dell’Upupa di Sorrivoli, questa location risulta ideale per ospitare le opere di Fioravanti: pare siano sempre state lì. Muri, intonaci e colori delle pareti richiamano le opere in terracotta. Colori affini, simili che rimandano a un dialogo antico, plasmati da terra e aria. Le sculture è come se riempissero il “vuoto”: sono collocate in maniera isolata, in modo da poterci girare attorno, scoprendone ogni lato, sfumatura e sguardo. La luce che le colpisce, inoltre, svela colori nuovi e diversi, rendendola sempre diverse agli occhi di chi la guarda. Il suo modo di interpretare il tempo e lo spazio è da architetto artista».
Come si presenta in Fioravanti la celebrazione dell’universo femminile?
«Un’emozione particolare si ha con il gruppo delle Putaske: la posizione del Cristo ha per un attimo quello del Mantegna. È in questo essere accorciato, rannicchiato, ristretto che viene fuori il dolore. Come per la Maddalena, sola, isolata, ieratica: grazie al suo “vuoto” si percepiscono tutte le emozioni che lei ha da offrire. Fioravanti amava unire al suo discorso religioso o i temi scultorei preferiti, come le figure più umili, ai margini della società. Ad esse invece dava un nome, una caratteristica propria, come ad ognuna della Putaske, una collana, le scarpe, per valorizzare figure apparentemente di poco conto, ma che meditano sul Cristo morto, e queste le rende degne della più alta considerazione».
MARCELLO TOSI