MILANO. Visitare il MUDEC, in via Tortona 56 a Milano, è sempre un’esperienza estremamente piacevole, soprattutto quando si salgono le scale per accedere al grande atrio del primo piano avvolto in quelle ampie vetrate che fanno cadere sui visitatori una luce dolce e rarefatta che invoglia alla meditazione.
La mostra dal titolo “Tatuaggio, Storie dal Mediterraneo” che ho avuto il piacere di visitare è tutto fuorché dolce e rarefatta, perché si va a scavare letteralmente nella pelle degli uomini e delle donne dalla preistoria ai tempi moderni con l’obbiettivo di raccontare una pratica che veste il corpo dell’umanità praticamente da sempre. Il tatuaggio infatti è con la sepoltura uno dei gesti coscienti con cui l’uomo si è differenziato dal mondo animale.
L’esposizione va detto subito è composta in gran parte da pannelli multimediali e cartacei che raccontano la storia di come i tatuaggi si siano diffusi nell’area del mediterraneo, ma non solo, da circa il 3300 ac fino al secolo scorso soffermandosi ad analizzarne le origini e le motivazioni, molto diverse nei secoli, che hanno portato le persone di tutti le etnie e le stratificazioni sociali a segnare la propria pelle in modo pressoché indelebile con disegni e forme di vario genere.
La mostra è quindi un viaggio a ritroso nel tempo all’interno di spazi ampi e dominati da un luce soffusa che avvolgono lo spettatore in una aurea di fascino e mistero.
Le opere fisiche da ammirare sono relativamente poche, si tratta principalmente di una mostra documentale, ma gli oggetti presenti sono comunque interessanti.
Ciò che colpisce è quanto importante sia stato il tatuaggio nel corso dei secoli sia per il valore estetico che per i messaggi di natura sociale che serviva veicolasse.
Con il tatuaggio si comunicava infatti la collocazione e lo status di un individuo nella gerarchia sociale, la sua disponibilità/indisponibilità all’accoppiamento, lo status maritale, la fede religiosa e la devozione a una divinità, l’appartenenza a un esercito o la punizione per aver commesso un reato o perso la libertà. Con il tatuaggio inoltre si auspicava la protezione da spiriti maligni e da pericoli.
La parola “tatuaggio” deriva dall’anglosassone tattoo, derivante dal tahitiano tatau, che secondo il Royal Museums di Greenwich apparve per la prima volta nella lingua inglese come “tattaw” nel resoconto del primo viaggio del capitano James Cook, pubblicato nel 1769.
Prima di allora ci si riferiva al tatuaggio in vari modi, ad esempio in Italia prima del secolo XVIII venivano usate le espressioni retratto (ritratto), marco (marchio), signo (segno), devozione e marconzito, mentre nel Seicento in inglese venivano usati i verbi listing, rasing, pricking, pinking e pouncing e in francese i sostantivi marque e picqueure e i verbi marquer, piquer o graver.
Nel percorso di visita la parte forse più interessante e a tratti sconvolgente è la storia del ritrovamento nella zona di Giogo di Tisa in Val Senales del corpo mummificato di Otzi, un uomo vissuto circa 5300 anni fa, sul quale sono stati individuati ben 61 tatuaggi che avevano, secondo gli antropologi, una funzione curativa. In molte culture era diffusa questa pratica di incidere sulla pelle in precise parti del corpo segni che servivano a curare malattie come emicranie, reumatismi e dolori articolari.
Greci e romani consideravano i tatuaggi una pratica propria di culture barbare e per questo infliggevano ai condannati un marchio d’infamia così da rendere indelebile la loro pena. L’unica eccezione era costituita dai legionari, che recavano sul braccio destro il nome dell’imperatore e la data dell’ingaggio, anche se ciò rendeva più rischiose eventuali diserzioni.
Tra i primi cristiani, consapevoli della virtuosa associazione tra schiavitù e stigmate, si diffuse presto questa pratica per testimoniare la propria fede, il proprio essere schiavi di Cristo.
Un ruolo molto importante viene riservato nella parte centrale della mostra al cosiddetto “marchio di Gerusalemme”, un tatuaggio che i pellegrini si regalavano durante i viaggi in Terra Santa.
Si trattava questa di un’usanza comune anche ad altre confessioni: i pellegrini musulmani erano soliti farsi tatuare alla Mecca o a Medina la data del pellegrinaggio, il proprio nome o le iniziali e altri simboli sacri.
Nella stessa sezione viene illustrato anche il “segno di Caino”, quello degli ultimi che reclamano dignità. In tutto il medioevo questo marchio caratterizzava principalmente gli artigiani in virtù di quanto scritto nella Bibbia, cioè quando Dio scacciò Caino dal Paradiso terrestre mandandolo nel mondo perché lavorasse e faticasse per vivere, gli pose sulla fronte il segno del “tau” affinché gli altri uomini, riconoscendolo, non lo uccidessero.
Affascinanti le animazioni video che occupano la sala conclusiva di questa sezione con le quali vengono fatti parlare i ritratti di alcuni viaggiatori di varie epoche mentre raccontano i tatuaggi visti sulle popolazioni che incontravano.
La parte della mostra più scabrosa è quella che racconta il lavoro sui tatuaggi dei carcerati da parte del controverso dottor Cesare Lombroso. Medico, filosofo, accademico, giurista, antropologo e criminologo in alcune fasi della sua vita fu considerato un indegno ciarlatano, in altre reputato uno dei più influenti intellettuali italiani, acclamato all’estero come il fondatore dell'” antropologia criminale”. Di qui la raccolta sistematica di disegni, fotografie, testimonianze orali e lembi di pelle di carcerati, il cui ottenimento era concordato con i prigionieri e le relative famiglie, che alla morte dei detenuti ricevevano modestissime somme di denaro quali “contributi al progresso della ricerca scientifica”. Non si sa quando sia nata l’abitudine dei carcerati di tatuarsi, ma tale usanza dura tuttora: in tutto il mondo i carcerati si sono tatuati e si tatuano per dichiarare amore, aneliti alla libertà, pentimento, odio, desideri di vendetta.
Il mondo del tatuaggio affascinò anche molti esponenti delle aristocrazie e delle famiglie reali europee: sino alla Prima guerra mondiale si fecero tatuare, tra gli altri, Giorgio V re d’Inghilterra, Federico IX re di Danimarca, lo zar Nicola II, la principessa Sissi e Winston Churchill, figlio del secondogenito del settimo Duca di Marlborough.
La mostra è visitabile fino al 28 luglio 2024 dal martedì alla domenica dalle 9.30 alle 19.30, il lunedì dalle 14.30 e il sabato fino alle 22.30. Il costo del biglietto è € 18 l’intero e € 16 il ridotto.
NICOLA BERTOGLIO