Nell’ambito dei cantieri di area padana, nel periodo di transizione fra XII e XIV secolo come ad esempio quelli del Duomo milanese iniziato nel 1386 e quello di S. Petronio a Bologna, iniziato meno di dieci anni dopo quello lombardo, l’architettura si presenta come un interessante viatico esplicativo di come lo stilema gotico, di ascendenza franco/fiamminga, si innesti in un tessuto culturale improntato sulla consuetudine padana dell’uso del laterizio, con tutti i vincoli strutturali e morfologici che questo comporta.
Se la chiesa di S. Petronio non nasconde questo aspetto, ma al contrario lo rende esplicito a causa della incompiutezźa dei lavori, il Duomo milanese per volontà di Gian Galeazzo visconti, pur conservando un’anima in laterizio nelle pareti, e materiale inerte di serizzo all’interni dei pilastri polilobati, viene poi ricoperto esternamente con il prezioso marmo rosa di Candoglia, fatto arrivare a Milano per via fluviale.
Ma che a Milano l’impianto dell’edificio sia realizzato secondo lo stile padano, ossia con la generale concezione basilicale, lo si evince dallo schema dell’edificio a “sala”, il che già di per se, prevede la presenza di contrafforti in luogo di archi rampanti, generalmente esterni, scelta obbligata al fine di garantire staticità e portanza all’edificio.
San Petronio dal canto suo, riprende e porta ai massimi sviluppi gli stilemi di monumentalità, compattezza e austerità che sono propri di alcune fabbriche, di poco precedenti, dei monasteri cistercensi. Ma proprio grazie a questo aspetto é possibile ottenere superfici murarie pronte ad accogliere i cicli narrativi realizzati a pittura.
Dal punto di vista decorativo, le due chiese padane godono di artifici consistenti in semi portici in miniatura traforati di sottosquadra, ghimberghe, doccioni, pinnacoli. Un impianto che, talvolta, ritrovandosi in punti cruciali come la sommità di elementi contraffortati, svolge funzione statica di contro spinta rispetto al peso longitudinale generato dalle coperture a volte, coadiuvando il sistema dei tiranti di sotto copertura esterna.
Una dinamica questa, che si presenta di concezione più complessa e completa nel duomo milanese, idesta dagli architetti che si sono avvicendati fra Xll e XlV secolo nel cantiere milanese e con l’impronta indelebile lasciata dalla sensibilità di Giovannino de grassi, ( nelle decorazioni dipinte entro ghimberghe nei sovrapporta della sacrestia a sud), Nicolas de Bonaventure, ( specie nei pilastri polilobati e i capitelli traforati con figure),Hulrich van Hendemn, e Jacopino da Tradate, con apporti anche di Giovanni Antonio Amadeo, quest’ultimo attivo gia nella certosa di Pavia, con i rilievi esterni delle storie della genesi( qui si riportano di jacopino immagini della vergine e del Papa Martino V).
Le decorazioni scultoree del duomo milanese, si arricchiscono specialmente nei “doccioni” del vasto campionario figurativo afferente al bestiario medievale.
Nell’edificio bolognese, si devono citare i tondi scolpiti in facciata dal veneziano Jacopo di Paolo, e le lunette realizzate da Jacopo della Quercia,(figure) che mostrano tutto il gusto della leziosità dei panneggi abbondanti e sinuosi, agitati da un ritmo serpentinato e in questo, accomunate alle invenzioni del cantiere padano coevo nel ducato milanese.
Un gusto in entrambi i casi, che deriva direttamente dalle pagine iper decorare delle miniature dei breviari e dei libri d’ore, specie quelle di ascendenza francese (non da ultimo libri del duca di Berry) che trovano i corrispettivi milanesi di mano dei certosini pavesi e, non da ultimo, dalla raffinatezza delle invenzioni della bottega dei Bembo ( tarocchi e arcani).
Nel caso del cantiere milanese, l’influenza transalpina é apportata dallo spirito di emulazione rivolto alla realtà coeva della certosa di Champmol presso Digione in cui tanto ha lasciato Claus Slutter, non solo nel “pozzo dei profeti”, ma anche nelle decorazioni del monumento sepolcrale di Filippo l’Ardito.
Tuttavia, nonostante lo slancio verticale apportato da alti setti murali culminanti in archi a sesto acuto, coperture a volte ogivali, é l’apporto di spazi a vetro policromo e i motivi decorativi ispirati al gotico fiammeggiante, specie nel duomo milanese, a esprimere l’adesione allo spirito e alla sensibilità nordica: quel gotico cosi seduttivo dalle movenze lente e infinite dei colori e dei panneggi, il ritmo lento della narrazione. In questi esempi, la rigidità del formalismo bidimensionale a fondo oro tipico dell’arte romanica dipinta, si scioglie nelle scene che parlano di grandi vicende, ma con la possibilità di percepirle meno trascendenti epiu umane, quibdi emulabili.
E’ quel che accade tramite l’apporto pittorico di Giovanni da Modena, nella cappella Bolognini in S. Petronio in cui si invera e condensa quel gusto “barbaro”, gotico appunto, da cui trasuda il carattere di exemplum morale e religioso del vescovo dedicatario, e che a Milano trova il corrispettivo nel mondo naturale in cui risiede la cosmogonia universale, in Giovannino e Jacopino.
Forse, con toni piu inclini allo spirito cortese fiorito, questi intenti fanno capolino anche nelle pitture, quasi immagini per devozione privata di Michelino da Besozzo unitamente alle delizie miniate di Belbello da Pavia.
Tutto questo se a Milano si disperde dalle ampie superfici murarie agli scranni delle miniature, a Bologna si dispiega più compiutamente con registri narrativi sovrapposti nella cappella Bolognini.
L’anima romanica di questi due campioni del tardogotico italiano, nonostante l’emulazione dei prototipi franco/fiamminghi, non consente loro una convincente virata del gusto e l’adeguamento delle tecniche realizzative, cosi di conseguenza viene preclusa l’adesione verso l’intrinseca natura di uno stile “barbaro”.
E questo induce a pensare che, forse, in questa resistenza a lasciarsi conquistare totalmente dallo stile “straniero”, è possibile scorgere i prodromi di qualcosa che aveva gia attecchito dello stile piu misurato e compassato del primo ‘umanesimo e del futuro rinascimento, le cui basi concettuali gia erano germogliate, negli studi dei primi umanisti, a cantieri padani in pieno fervore e ben lungi dall’essere conclusi.
LUCA NAVA