MILANO. “In che cosa consiste la bellezza?”. “Perbacco!” Direbbe qualcuno “qui si vola troppo alto!”; ma, considerato lo squallore delle vicende dell’attualità sia internazionale che nazionale, una cosa del genere ci sta.
E vengo al tema: per noi italiani, eredi, sia pure alquanto acciaccati, del mondo classico, la bellezza consiste nell’equilibrio delle parti, nell’armonia, dalla statuaria fino alla sobria eleganza della moda italiana: non c’è italiano che abbia fatto una media inferiore dignitosa che non sia d’accordo sulla bellezza della Venere di Milo o della Gioconda di Leonardo.
E, del resto, orizzonti urbani, per fare un esempio, come quelli di una Berlino, dove in centro si fronteggiano i massicci palazzi stile “sovietico” con la torre avveniristica di Alexander Platz, o di una Miami dove gli alberghi di lusso di South Beach si alternano alle casette squallide di Little Havana, ci lasciano fortemente perplessi; eppure siamo affascinati da orizzonti non proprio belli: un mare in tempesta, un uragano tropicale, una metropoli caotica.
Riconosciamo la giustezza della definizione del poeta inglese John Keats quando afferma, alla fine della sua “Ode su un’urna greca”, “La Bellezza è Verità, la Verità Bellezza” ma siamo attratti dall’abnorme e dal disarmonico.
Perché?
Forse perché nella bellezza c’è qualcosa di inesprimibile, un segno di quel sublime come misto di bello e di terribile che l’Islandese di Leopardi incontra al capo di Buona Speranza imbattendosi nella Natura; un sublime cui tendiamo e di cui sentiamo la mancanza e che non corrisponde sempre a un’idea pacifica e condivisa del bello.
E la poesia (e i poeti), a mio giudizio, proprio questo devono fare: tentare di esprimere l’inesprimibile, sempre con la consapevolezza che non ci si riuscirà mai del tutto.
VINCENZO MONTUORI