MARINA ABRAMOVIĆ: QUANDO L’ARTE È UNA PERFORMANCE

Marina Abramović e il Museo CODA, fonte Wikipedia licenza Creative Commons Attribution 3.0 Unported .

MILANO. Marina Abramovićnasce il 30 novembre 1946 a Belgrado. La sua formazione artistica si attua presso l’Accademia di Belle Arti di questa città e già dall’inizio degli anni settanta abbandona i tradizionali mezzi espressivi come il disegno e la pittura e si orienta verso una dimensione più concettuale che contempla, oltre al proprio corpo, anche il suono e, in generale la performance. Sicuramente l’artista più importante che la Abramovic incontra, in quell’inizio degli anni settanta, è il tedesco Joseph Beuys, uno degli artisti più influenti del XX secolo. Altro artista determinante per le scelte espressive dell’artista serba è il rappresentante più famoso dell’Azionismo Viennese, Hermann Nitsch.

Da questo periodo in poi Marina Abramovic è come se mettesse il proprio corpo a disposizione degli spettatori delle sue celebri performance, a volte anche molto rischiose, perchè la Body Art, il corpo come linguaggio, prevede anche azioni estreme attuate, appunto, sul corpo dell’artista, o per propria volontà o per volontà di chi partecipa a queste azioni.

Nel 1975 Abramovic incontra l’artista Ulay che diventerà suo compagno di vita e di lavoro. I due sono continuamente in viaggio per proporre le loro performance, le loro azioni, spesso con i loro corpi nudi, come fossero tele bianche da riempire non con forme e colori ma con il vissuto stesso che deriva a seconda di quello che propongono e che prevede anche lividi, sangue, ecchimosi, ecc…

Nel 1982, Abramovic e Ulay, per approfondire la tecnica della meditazione, molto importante per le loro opere, vanno in India e incontrano il Dalai Lama. I due, per i loro lavori, si servono sempre più di strumenti documentativi come foto e video. La loro relazione sentimentale termina intorno al 1987, dopo dodici anni vissuti intensamente, anche se, per un po’, continueranno ancora a lavorare insieme. 

Anche il loro addio diventa motivo di interesse artistico infatti, dopo aver camminato per circa tre mesi lungo la Grande Muraglia, lei da una parte e lui dall’altra, una volta incontrati, si lasceranno per sempre.

Da notare che questa performance aveva il titolo di “The Lovers”, gli amanti. Intanto la fama dell’artista cresce notevolmente ed ottieni diversi e importanti riconoscimenti come quello di rappresentare Serbia e Montenegro alla Biennale di Venezia del 1997 dove vince il “Leone d’oro”, come migliore artista, con l’opera “Balkan Baroque”, con riferimento alla guerra dei Balcani di quegli anni novanta.

Questa performance vede l’artista ripulire da sangue e cartilagini circa due tonnellate di ossa animali, in mezzo a un fetore e a un senso di schifo e repulsione. Sicuramente, una delle azioni più famose di questi ultimi anni, è la performance “The Artist is Present”, del 2010, presentata al MoMA di New York che vede la Abramovic seduta per otto ore al giorno, fissa, immobile, per tre mesi, mentre gli spettatori, a turno, potevano sedersi di fronte a lei, in assoluto silenzio. Nel 2018 una grande mostra dell’artista serba viene fatta a Firenze, a Palazzo Strozzi, mentre l’anno dopo è alla Pinacoteca Ambrosiana di Milano dove viene presentata “Estasi”, un omaggio a Santa Teresa d’Avila.

L’ultima grande mostra di Marina Abramovic è prevista per quest’anno alla Royal Academy di Londra, praticamente una summa di cinquanta anni di lavoro di questa artista che ha esibito il proprio corpo senza sconti, senza limitazioni e, sempre, al servizio dell’arte. Un corpo che è stato messo, spesso, a dura prova, quasi l’artista volesse rendersi conto, sondare, esaminare il proprio limite fisico e mentale, insomma sin dove poteva arrivare, stabilendo, sempre, un forte campo d’energia tra lei e il pubblico che diventa parte attiva del suo lavoro, anche perché, come lei stessa afferma, “Senza il pubblico la performance non ha alcun senso, perché, come sosteneva Duchamp, è il pubblico a completare l’opera d’arte. Nel caso della performance, direi che pubblico e performer non sono solo complementari, ma quasi inseparabili”.

ALFONSO TALOTTA