LE AFFASCINANTI IMPLICAZIONI SIMBOLICHE DEL LABIRINTO

Labirinto, foto immagine: Wikipedia

MILANO. La principale fonte di informazione relativa alla narrazione mitica del labirinto proviene dalle Metamorfosi di Ovidio. La narrazione presenta per sommi capi, i fatti mitologici in questi termini. Minosse, figlio di Zeus (che si era trasformato in un toro bianco per amare sua madre, la bella Europa, da cui la famosa iconografia del “ratto d’Europa”), regnava su Creta, dove aveva alla sua corte Dedalo, grande architetto, di origine ateniese, musico e inventore anche della danza.

Dedalo aveva ucciso, prima di trasferirsi a Creta, il geniale nipote Talos, perché invidioso di essere da questi superato in maestria. Poseidone, dio del mare e dei grandi sconvolgimenti atmosferici, volle dimostrare il suo favore a Minosse inviandogli un grande toro bianco, evocativo anche della sua origine, ponendogli una condizione: che dopo i festeggiamenti, il toro venisse a lui sacrificato. Minosse, per via della bellezza del toro, decise di tenerlo per sé, facendo un altro sacrificio a Poseidone. Provocò così la reazione dell’iracondo dio, che fece nascere un’insana passione per il toro medesimo in Pasifae, moglie del re.

Fu il geniale Dedalo a fabbricare per l’infelice regina un simulacro di mucca, dentro il quale la donna si nascose e, venendo posseduta dal toro tratto in inganno, riuscì a placare il suo tormento. Dall’innaturale unione nacque un mostro dalla testa taurina e il corpo d’uomo, il Minotauro, che venne rinchiuso al centro del labirinto, appositamente costruito da Dedalo. Intanto Minosse, a causa dell’uccisione del figlio, avvenuta durante i giochi di Atene, pretese dalla medesima città che, ogni nove anni, sette giovanetti fossero mandati a Creta affinché venissero dati in pasto al Minotauro. Dopo diciotto anni Teseo, figlio di Etra e di Egeo, re di Atene, ma forse figlio segreto di Poseidone, decise di andare egli stesso a Creta, con gli altri sei giovani, per interrompere il triste tributo, uccidendo il Minotauro.

Egli partì da Atene dispiegando sulla nave una vela nera e promettendo a suo padre Egeo che, se la missione fosse andata a buon fine, al ritorno l’avrebbe sostituita con una bianca. All’arrivo a Creta venne messo al corrente che le difficoltà dell’impresa erano due: uccidere il Minotauro e ritrovare la strada per uscire dal labirinto. La bella Arianna, figlia di Minosse, innamoratasi di Teseo, decise di aiutarlo e, su consiglio del geniale Dedalo, gli diede un’ascia bipenne, cioè doppia, unica arma capace di uccidere il mostro, e un gomitolo di filo, che l’eroe avrebbe dovuto srotolare entrando nel labirinto, lungo la via percorsa, per ritrovarla, riavvolgendolo, al ritorno. L’eroe eseguì la missione, poi salpò portando con sé Arianna, che venne poi abbandonata sull’isola di Nasso dall’eroe ingrato.

Arianna venne punita per aver concorso alla morte del fratello, ma fu una punizione di poca durata, perché presto divenne sposa di Dioniso. La maledizione di Arianna fece dimenticare a Teseo di sostituire la vela nera con quella bianca, cagionando il suicidio del padre Egeo, il quale vedendo la nave bardata a lutto entrare nel porto, si buttò nel mare, che da quel giorno prese il suo nome. Minosse, infuriato anche con Dedalo, rinchiuse il medesimo e il figlio Icaro nel labirinto. Il geniale architetto fabbricò delle ali di piume e cera per sé e per il figlio, fuggendo in volo. Ma anche per Dedalo era pronta la punizione per l’omicidio del nipote Talos, poiché, malgrado le sue raccomandazioni, il figlio Icaro, ebbro della sensazione del volo, si levò troppo in alto, vicino al carro del sole, il cui calore sciolse la cera delle ali, facendolo precipitare e morire.

Il sgnificato della parola “labirinto” è ricavabile dall’etimologia, molto incerta, del termine viene attribuita comunemente, ma non senza contestazioni e ipotesi alternative, alla parola greca labrys, che designava l’ascia doppia o bipenne, una specie di scure sacrificale che aveva la lama da entrambi i lati. Tale simbolo è stato ritrovato a Creta, disegnato e inciso nel palazzo di Cnosso, ritenuto comunemente la sede del labirinto, con tale frequenza da supportare la deduzione che il medesimo avesse anche fornito l’etimo del nome della leggendaria costruzione.

Un’altra ipotesi etimologica trova fondamento nella concezione del labirinto come viaggio/ritorno al centro e nel ventre della terra. Ecco quindi l’uomo che torna alla materia originaria, come narrato nel mito di Deucalione e Pirra. I due, sfuggiti al diluvio scatenato da Zeus, ricevettero da un oracolo l’indicazione di gettare alle loro spalle le ossa della madre: si trattava delle pietre della terra. Le pietre lanciate da Deucalione si trasformarono in uomini, quelle lanciate da Pirra in donne. Il termine greco per pietra è laos, forma più antica di laas, che significa genericamente «popolo», mentre nell’Odissea viene adoperata come «uomini», «gente». Tale ipotesi esclude quindi che il labirinto debba il suo nome al termine labrus, l’ascia bipenne, bensì proprio al termine laos, «pietra».

Altre ipotesi vedono la parola labyrinqos legata all’etrusco thaura, «sepolcro» o al licio labra, «ipogeo». Oltre alle narrazioni mitiche dei due protagonisti Teseo e Arianna, e a quella dell’antagonista, il Minotauro, anche la figura di Dedalo è dal punto di vista simbolico rivelatrice e fondamentale. Dedalo, proveniente dalla patriarcale Atene, fu colui che giunto a Creta costruì il labirinto nel quale venne imprigionato il polo antitetico della civiltà umana, della polis: il mostro che divora i giovani della comunità ateniese, la cancellazione, o il sacrificio del suo futuro.

E proprio l’imprigionamento del mostro, la sua separazione dal contesto umano e sociale, è il vero presupposto dell’impresa di Teseo, l’uccisione del medesimo e l’annullamento della feroce ma parziale compensazione del suo imprigionamento, l’annuo tributo sacrificale da parte della civilissima Atene. Significativo è anche il nome stesso, Dedalo, comunemente ricollegato alla definizione di abile costruttore, senza che venga a sufficienza sottolineato il collegamento con le arti della fusione dei metalli, così fondamentali nella ars costruendi, ricollegabili all’etimo sumero dè-dal, «fiamma».

Il mitico costruttore resta però imprigionato dalla sua costruzione nelle viscere della terra e riuscirà a fuggire tramite due aspetti che dalla terra sono indipendenti: il genio di costruire le ali e l’aria, che le medesime sostiene. È doveroso anche sottolineare che le uscite dal labirinto nella narrazione mitica esaminata siano due: una orizzontale tramite il filo d’Arianna, dettato dall’amore, che consente di ripercorrere all’indietro il percorso d’ingresso, l’altra in verticale, tramite la costruzione delle ali da parte di Dedalo, ispirata alla ragione e al genio.

D’altro canto è duplice anche il simbolismo dell’eroina femminile: da un lato l’Arianna che cede alle lusinghe del maschile e aiuta Teseo a riuscire nella sua impresa, dall’altro lato l’Arianna meno banale, meno debole, ma anche più significativa per l’etimo del suo nome, che richiama sia il ragno (dall’ebraico arag, «tessere», «intrecciare», ma anche ereg, «tessuto») sia il grande contesto della tradizione iniziatica femminile, quella della tessitura, Minerva e Aracne in Grecia, la dea Neith in Egitto o Na’ma, figlia di Lamech e sorella di Tubakcain, di discendenza cainica nel mito massonico di tradizione biblica.

Anche se si è già avuto modo di farne cenno in precedenza, sarà opportuno sottolineare ancora la distinzione fondamentale della figura in esame dall’altro simbolo, pur collegato, della spirale, sulla base della caratteristica propria di un labirinto, e cioè quella di disegnare un percorso nel quale sia concreta e ricorrente la possibilità di sbagliare strada, e quindi perdersi. Pertanto gli elementi costituenti del simbolo del labirinto sono quattro: il punto di partenza, la meta, il percorso giusto e le deviazioni errate.

Nelle religioni così come nel mondo naturale, governato da leggi “superiori” e perciò stesso, divine, l’attribuzione dei significati a un evento oppure a catene di eventi, fatti o relazioni fra soggetti, animati o meno che questi fossero, necessito’ di essere espresso.

Dapprima questo avvenne tramite simboli, ancorché fu chiaro immediatamente che la complessità di ciò che veniva descritto, avrebbe richiesto un’adeguamento dei modi del descrivete, inventando il segno-scritto in luogo del segno-simbolo.

Eludiamo per ora le implicazioni della vocalizzazione del segno-scritto ( parola) poiché questa strada è ardua e necessita altri presupposti ancora, pertanto è questione che sara’ affrontata in un successivo articolo.

Chi si occupa di ricerca esoterica e simbolica ha sentito ripetere mille volte l’interpretazione lessicale ed etimologica del termine simbolo, il richiamo al termine greco, alla leggenda della tessera spezzata che deve combaciare, ma è su un altro aspetto che si vorrebbe qui fondare questa esplorazione.

Necessità, per un percorso che non sia esente da filologica prosecuzione, occuparsi dell’aspetto del simbolo quale anello di congiunzione o magari ricongiungimento tra due branche della filosofia che da tempo agiscono o si illudono di farlo, su direzioni separate: la ricerca scientifica e la ricerca spirituale o esoterica che dir si voglia; trattando contestualmente, il simbolo come strumento di scienza non eludendo o rendendolo esclusivo di un ambito volto all’esoterismo.

Dopo Guénon, che avviò la restituzione degli studi simbolici e tradizionali a metodi scientifici, occorre fare o tentare di fare ancora dei passi in avanti.

Il primo passo evolutivo, la prima relazione: il segno e il simbolo, o per meglio dire dal segno al simbolo, la nascita, l’evocazione di un significato. D’altro canto, anche sotto tale profilo, appare eloquente l’etimologia della parola «simbolo», che denominava il ricongiungimento dei frammenti spezzati tramite il quale il messaggero segreto poteva farsi riconoscere dal destinatario del messaggio. Solo tale ricongiungimento può trasformare il segno in simbolo. Ma l’uso del termine «segno» presuppone già l’aver varcato un confine, quello della comunicazione, il quale consiste in un passaggio evolutivo importante della storia dell’essere umano, che è quello della scrittura e della sua comunicazione.

Una prima domanda si impone arrivati a questo punto: esiste una vita del simbolo prima della sua comunicazione, quindi prima della tracciatura del segno?

Il simbolo prima del segno più esplicitamente.

Necessariamente si deve immaginare una fase della storia in cui lo stesso non aveva ancora creato la scrittura in nessuna sua forma, neanche nelle prime preistoriche raffigurazioni su pietra a nostra conoscenza.( e che non conosceremo mai).

Il campo è davvero minato in quanto oltre al percorso dell’evoluzione della specie umana come disegnato dalla concezione darwinista ormai prevalente nell’opinione della scienza convenzionale (quello per intenderci che colloca il periodo della non esistenza della scrittura in qualcuna delle innumerevoli specie di passaggio dall’essere scimmiesco all’homo sapiens) non si può non tener conto di tutta la ricerca di confine che ha dispiegato la nascita dell’homo sapiens in modi multiformi. Tali modi vanno da una provenienza da esperimenti e combinazioni, genetiche e non, costruite da altre civiltà più evolute, forse non terrestri, a una provenienza divina come teologicamente proposta dalle religioni fondate sulla rivelazione, come quella cristiana, o a ogni altra possibile mutazione della vita, non necessariamente fondata e mossa da una spinta meramente evolutiva della specie. Ma proprio questa prospettiva ci deve spingere a considerare l’universo come una specie di palcoscenico teatrale dove tutto si svolge e si ripete secondo un copione fondato sulla ripetizione di eventi fondamentali dei quali esso stesso diviene prova storica, perché mai gli eventi potrebbero essere rappresentati e ripetuti nel tempo se non fossero in precedenza già accaduti.

Quindi il simbolo è innanzitutto la rappresentazione di un evento, che sia un fatto storico o un passaggio spirituale o metastorico, e questa valutazione ci conduce a prescindere da ogni diatriba tra evoluzionismo e creazionismo, di qualsiasi natura entrambi considerati, diatriba che induce conseguenze diverse solo in relazione alla collocazione storica e temporale di possibili fasi evolutive o creazionistiche.

Tali considerazioni quindi non impediscono di immaginare un momento storico in cui l’uomo non utilizzava la scrittura, come gli stessi antichi testi religiosi testimoniano, identificando sempre un momento o un soggetto vocato alla sua introduzione nella comunità umana, magari attribuendo in precedenza all’uomo, non ancora scrivente, altre forme di comunicazione. D’altro canto molte specie animali adoperano forme di comunicazione alternative alla scrittura che pur sempre hanno (e devono necessariamente avere) una struttura simbolica, perché parlano di fatti ed eventi che devono essere rappresentati e in tale rappresentazione consiste il simbolo.

Tutti i segnali di pericolo, ad esempio, si fondano su tale presupposto: i versi degli animali cacciati rispetto alla percezione della presenza dell’animale predatore sono rievocativi di quelli emessi dalla vittima mentre soccombe al cacciatore e, nella loro rappresentazione scenica di ciò che è accaduto e potrebbe ancora accadere, diventano il «simbolo pericolo» (o «paura») e ne comunicano la portata. Quindi il simbolo è sempre preesistente, come evento che è divenuto patrimonio conoscitivo della specie, alle sue possibili forme di comunicazione, nate con la funzione della conservazione e della trasmissione, perché è fondato su qualcosa che è già accaduto. Si potrebbe a tal punto obiettare che tale definizione abbia un’ispirazione prettamente materialistica che esclude tutta quella codificazione di simboli universali, i cosiddetti «archetipi», di cui avremo in seguito occasione di occuparci, ma ciò non risponde al vero. Che si immagini un mondo della Natura o un mondo di Dio è scelta individuale e libera di ogni essere umano ma, indipendentemente da tale scelta, ogni essere umano, ma anche animale diremmo, codifica una storia di ciò che è a sua conoscenza e che è costituita dagli accadimenti, anche squisitamente spirituali, di cui, in forme più o meno avanzate, è cosciente e consapevole e, in qualche modo, questa storia conserva e comunica tramite una rappresentazione di questi eventi. E tutte queste rappresentazioni sono i simboli.

Sotto questo profilo diventa altrettanto irrilevante considerare questo palcoscenico limitato alla vita dell’essere rappresentante: nessuno di noi può considerare un dogma ritenere che la vita non possa essere qualcosa di più ampio e pervasivo che travalichi, anche in termini di memoria e parziale (o meglio graduata) consapevolezza, la forma, quasi platonica, della nostra identità individuale. Eventi, accadimenti, quindi, sul piano spirituale o materiale considerati, e la distinzione potrebbe anche essere meramente illusoria; coerentemente, dopo la fase del linguaggio, li abbiamo collegati alla parola «accadere», che significa, nell’etimo, cadere dall’alto. Il termine «cadere», post scripturam natum, è esso stesso un simbolo matrice di ulteriori mutazioni, anch’esse squisitamente simboliche. Nato per la constatazione tutta terrestre della forza di gravità, per la quale tutto ciò che arriva sulla terra è una caduta, o per quella tutta fideistica, non solo di matrice cristiana o ebraica, di una caduta dell’essere umano medesimo da uno stato edenico superiore, tale termine ha consentito di disegnare i multiformi percorsi degli eventi. «Incedere», «succedere», «procedere», «accadere».

«Decadere», sono tante direzioni possibili con un’unica origine: «cadere». Come, per l’appunto, se fosse l’unica dinamica per noi possibile…

Il simbolo Universo e il simbolo Linguaggio

Il mondo storico e metastorico, nel quale le memorie degli accadimenti materiali o spirituali si sono accatastati come in una sorta di biblioteca mnemonica universale, non potrebbe avere alcuna forma di comunicazione con la nostra dimensione spazio-temporale se i simboli che lo sintetizzano non formassero un ulteriore mondo, una sorta di iperspazio di comunicazione, un ponte tra le sponde. Questo iperspazio svolge in realtà una doppia funzione: da un lato, in base all’attuazione della potenziale decodificazione del significato, di strumento di condivisione della conoscenza universale, dall’altro, quando tale decodificazione non avviene, di conservare asetticamente quell’archivio in attesa di future e più proficue riutilizzazioni. Perché un ulteriore effetto dell’utilizzazione di un linguaggio simbolico più o meno complesso è quello della selezione dell’accesso alla conoscenza universale, selezione che consente di tenere determinati contenuti al riparo da corruzioni o pessime utilizzazioni nelle situazioni pertinenti gli aspetti concreti: gioielli, manifestazioni pseudoartistiche, simboli estrapokari da chissà dove e ridotto all’uso e consumo circostanziate.

Quindi esiste un mondo universale di conoscenza simbolica, tradotto nel nostro presente da un ulteriore mondo costituito dal linguaggio con cui tale conoscenza può essere a noi trasmessa. Ma la funzione del simbolo è anche quella di ricongiungere nel nostro cervello la funzione cognitiva decodificante della percezione della realtà, situata nell’emisfero sinistro, con la funzione emozionale, fondata sul riconoscimento intuitivo del contenuto tramite la memoria ancestrale, somma di tutte le micromemorie individuali dei nostri atomi, tipica dell’emisfero destro del nostro cervello.

I due frammenti della realtà combaciano, le parti divise si ricompongono, il simbolo Universo, tramite il simbolo Linguaggio entra nella nostra realtà.

Quali aspetti o declinazioni il simbolo del labirinto, e l’oggetto stesso di quel simbolo abbia assunto nel corso di due millenni di cristianesimo, sarà oggetto del successivo articolo, in cui complementarmente rientra la questione gnostica.

LUCA NAVA