IL GRAN TEATRO DELLA LUCE: DA TIZIANO A RENOIR

Il Gran Teatro della Luce. Tra Tiziano e Renoir. Musei Civici G.G. Galletti, Palazzo San Francesco, Domodossola. Ph. Agnese Bedini

DOMODOSSOLA. Il 21 luglio 2023 si è inaugurata negli spazi dei musei civici “Gian Giacomo Galletti” in Palazzo San Francesco a Domodossola una mostra dedicata espressamente al ruolo che la luce interpreta nella pittura italiana ed europea partendo dal Rinascimento per giungere al Novecento, passando per il Seicento e l’Ottocento. L’evento che si avvale della curatela di Antonio D’Amico e Federico Troletti nonché del patrocinio della Regione Piemonte e del Comune di Domodossola oltre alla collaborazione della Fondazione Angela Paola Ruminelli e del Museo Bagatti Valsecchi di Milano, si prospetta assai accattivante in ordine alla possibilità di ammirare 45 opere (13 prestate dal Banco BPM) di artisti di rango che hanno, con i loro dipinti, offerto  un contributo fattivo alla problematizzazione di una delle questioni cruciali della storia dell’arte: la luce. Il metodo seguito dai curatori è essenzialmente diacronico e, nel contempo, fenomenologico. Spunti di riflessione non mancheranno agli addetti ai lavori e al pubblico che avranno modo di confrontarsi con opere difficilmente visibili. Il sipario sull’evento calerà il 7 gennaio 2024.

Il set della mostra non è casuale se si tiene conto che l’Ossola è un territorio vocato alle centrali idroelettriche, alcune delle quali appartengono già da tempo all’archeologia industriale. Una sezione del percorso è infatti dedicata  espressamente, grazie al materiale fornito dall’archivio di ENEL Green Power (tra cui fotografie molto rare), a una delle rivoluzione tecnologiche che la storia dell’uomo vanti, ossia quella della produzione di energia elettrica che dispensa luce.

L’ideazione della mostra da parte dei curatori, che hanno affidato l’allestimento all’architetto e light designer Matteo Fiorini di Studio Lys, si pone come obbiettivo precipuo quello di “avvicinate i visitatori a una narrazione per immagini lontane tra loro nel tempo evidenziando il cambiamento dell’uso della luce, la sua diversa resa tecnica, ma anche come il suo valore si sia evoluto nelle varie epoche”.

Le diverse declinazioni della luce nei contesti artistici può prendere avvio dal capolavoro cinquecentesco di Tiziano Vecellio e di Palma il Giovane, ossia dalla Deposizione di Cristo nel sepolcro, in cui la luce proveniente dall’alto, come squarcio di cielo, è la luce del divino, del soprannaturale, che irradia il corpo morto del Cristo e della sindone che lo avvolge nel corale compianto degli astanti, ma anche, non casualmente, il volto della Maddalena nella classica postura  tramandataci da Nicolò dell’Arca in poi. Tale luce che cade dall’alto i curatori l’hanno definita diegetica ovvero dotata di una valenza memoriale e narrativa. Nell’opera succitata è infatti importante notare come la narrazione della discesa nel sepolcro del Salvatore dai forti accenti tragici diventi, mediante la luce della grazia, “contemplazione e speranza”. Tale assunto vale anche per l’opera del veneto Paolo Piazza, allievo di Palma il Giovane e del Bassano, intitolata Cristo morto sorretto dagli angeli, un motivo, con cui si sono cimentati numerosi artisti di area veneta e non (Vittore Carpaccio,  Andrea Mantegna, Giovanni Bellini, Antonello da Messina per citarne alcuni) nella sua accezione epifanico-trasfigurativa della passione di Cristo già incamminato sui sentieri della gloria celeste simboleggiata dai due angeli in veste di sacri psicopompi. La luce, in questi maestri, è perlopiù idealizzata, considerata come emanazione del divino, del soprannaturale.

Il dramma della flagellazione del Nazareno viene rievocata dal caravaggesco Mattia

Preti nel dipinto Cristo alla colonna, dove un fascio di luce perpendicolare investe la figura portante in una sapiente torsione, il suo panneggio, la schiena di uno dei flagellatori e le screziature del marmo della colonna che più che una colonna appare come un sorta di basamento, su cui l’imminente condannato a morte poggia le proprie mani legate da una corda. Il gioco di ombre e luce esalta, secondo il metodo caravaggesco, la composta, rassegnata e umanizzata sofferenza di Cristo, mentre sullo sfondo e di lato gli aguzzini inveiscono brutalmente con colpi di frusta  sulle sue carni. Il rosso della tunica di uno dei flagellatori accentua per contrasto la massa corporea del Cristo. La luce ne modella quindi il corpo, mettendone in risalto, realisticamente, le fasce muscolari e la postura. Il percorso continua con le opere  dei pittori fiamminghi caravaggeschi Gerard van Honthorst, anche noto come Gherardo delle Notti e  Adam de Coster, cui si aggiunge il francese Trophime Bigot, tutti accomunati dalla tecnica di dipingere scene di genere “a lume di candela”, che contrassegna anche la celebre pittura di George de La Tour. Valga da esempio Il fumatore (uomo con pipa) di Bigot, in cui la luce di una candela illumina il volto, la mano e il colletto pieghettato di un gentiluomo intento a leggere ad alta voce un cartiglio; in primo piano un giovane fumatore di pipa funge da ascoltatore; sul suo volto visto di profilo si riflette la luce della candela; l’atto di inspirare il fumo è reso con una mimica realista di impatto. Il dipinto sopracitato può lecitamente dialogare, a sua volta, con l’opera Contadino che accende una candela con un tizzone ardente (1850) del pittore bresciano dell’Ottocento Angelo Inganni, in cui si evince una straordinaria consonanza nel ricorso a una comune fonte luminosa quale è una candela, la cui luce si irradia sul volto del contadino, mettendone in risalto i tratti. Ma il pezzo forte di questa sezione, è una Sacra famiglia con San Giovannino del fiammingo Anton van Dyck, allievo e amico di Pieter Paul Rubens, in cui tutta la luminosità è concentrata o meglio congelata sul Bambino Gesù e sui panni che l’avvolgono. Del resto, è risaputo per i credenti che Cristo è il cuore della salvezza, l’alpha e l’omega di tutte le cose. La luce ha pertanto in questo dipinto un forte valore sacrale. Maria che, in tutta la sua maestà e fierezza, sorregge il divin pargolo, stacca da lui per un attimo lo sguardo per rivolgerlo a San Giovannino, pensando forse al destino tragico che accomunerà i due cugini. La composizione dell’opera assai elegante ed equilibrata risente senza dubbio della lezione di Tiziano e della pittura veneta che van Dick interiorizzò durante il suo viaggio di formazione (Bildungsreise) in Italia.

Nel bel dipinto di Pier Francesco Mola Diogene (1640-1660), l’artificio teatrale della luce è stavolta affidato a una lanterna. Essa illumina esternamente il filosofo che indossa un ricco e candido panneggio, ma lascia intuire nell’osservatore anche un’illuminazione interiore che  porta Diogene alla ricerca dell’uomo al di là delle convenzioni sociali.

Tra Ottocento e Novecento un’ampia sezione è dedicata alla luce che, pur mantenendo la sua forza diegetica ed evocativa, si apre alle istanze pittoriche della modernità. Superando le strettoie e le ipoteche accademiche, gli artisti presi in esame hanno sperimentato nuovi linguaggi, scoprendo nuove soluzioni nella resa della luce naturale e della sua trasparenza, dipingendo, oltre ai ritratti, scene di genere e paesaggi raffigurati in una particolare stagione e ora del giorno.  Entrano a questo punto alla ribalta artisti dello spessore di Giuseppe Molteni, Ippolito Caffi, Domenico Induno, Angelo Morbelli. Di quest’ultimo, definito il “pittore degli ultimi”, si può ammirare La sedia vuota dedicato al tema della scomparsa di un’anziana in un ospizio tra lo scoramento, i ricordi e le preghiere delle compagne; alcune sono intente, con muta rassegnazione, ai lavori di cucito e a maglia. La luce che proviene dalla finestra illumina questa scena mesta che non perde una sua valenza sacrale e simbolica. Il pittore Morbelli aderirà verso la fine dell’Ottocento al Divisionismo, il cui intento fu quello di garantire, pur conservando un equilibrio estetico, la massima luminosità mediante striature, pennellate e puntini. In mostra tale movimento artistico è rappresentato in modo eloquente dai lavori di Gaetano Previati come Il lavacro dell’umanità (1901), dove il tema del sacrificio di Cristo, crocifisso accanto ai due ladroni, si rinsalda con quello della luce, creando effetti iridescenti, definiti dalla critica persino surreali. La luce ritorna come vera protagonista nel quadro divisionista di Giuseppe Pelizza da Volpedo Panni al sole del 1894-1895, un’opera unica nel panorama della pittura italiana di fine Ottocento, attraverso la quale Pelizza sperimenta la resa più fedele possibile della luce naturale, adottando, come si diceva, la tecnica divisionista. Citando un passo della presentazione dell’opera presso la Galleria milanese Maspes, il dipinto fu realizzato “tramite una meditata costruzione luminosa e spaziale, a sua volta capace di fornire al paesaggio una solidità e un’universalità sorrette da una forte griglia compositiva, solo in apparenza fondata su una tradizionale prospettiva monocentrica”. Sperimentare la restituzione della luce naturale in maniera più fedele possibile significa, d’altro canto, avere un approccio sia diretto alla realtà (pittura en plein air cara agli impressionisti) sia indiretto, ossia rammemorante, evocativo e impressivo. L’opera di Pelizza dialoga, in tal senso, con il capolavoro di Pierre-Auguste Renoir Le lavandaie a Cagnes (Les laveuses à Cagnes, 1912), in cui l’artista evoca, nell’ultima fase della sua vita, con una naturalezza luministica e cromatica piuttosto febbrile e concitata (quasi post-impressionista) la dimensione edenica della vita agreste, anch’essa purtroppo transeunte. In questo dipinto egli ha saputo efficacemente valorizzare la semplicità e l’umiltà dei riti quotidiani come il lavare i panni nelle acque limpide di un ruscello in quanto espressione di una vita autentica perché a contatto diretto con la natura.

L’esposizione non poteva poi trascurare gli artisti dell’Ossola e in particolare della Val Vigezzo nota anche come la “Valle dei pittori”. A quest’ultimo riguardo, tra gli esponenti più significativi, si annovera Giovanni Battista Ciolina (1870-1955) che ha ritratto, con colori brillanti e alla maniera divisionista, paesaggi montani, borghi e abitanti della sua terra natia corroborati da una luce proveniente dai bei cieli del territorio. A seguire Carlo Fornara (1871-1968), amico di Giovanni Segantini e autore anch’egli divisionista dell’opera Le lavandaie (1898), in cui si assiste a un sapiente gioco di “scomposizione e composizione della luce” che investe le figure protagoniste del pregevole dipinto.

La luce assume ancora una volta un alto valore storico e drammatico in La morte di Cleopatra di Achille Glisenti (1848-1906). Il pittore colloca la scena in un’ambientazione di gusto classico. Tutta la luminosità dell’opera si concentra sulla figura della regina d’Egitto stesa sul letto di morte; una grande cortina blu a cascata, di gusto  barocco, la sovrasta tra il gioco sapiente di luce e di ombre. Tra lo sconforto generale delle ancelle si consuma la tragedia, cui assiste anche un attonito armigero romano in veste di testimone oculare. 

Il Divisionismo simbolico e il Naturalismo lombardo con i temi e i soggetti che li caratterizzano (scene di genere, paesaggi alpestri, mucche al pascolo ecc.) tornano alla ribalta nelle narrazioni pittoriche di Gaetano Previati (Il bacio), Giuseppe Molteni (Soccorso ad un rovescio di fortuna), Giuseppe Mascarini e Giovanni Sottocornola (Gioia mia), i cui effetti di luce veicolano in maniera preponderante emozioni e sentimenti di sapore romantico. L’opera di Sottocornola che conclude felicemente il percorso assai articolato ma ben allestito, “è un vero e proprio racconto di luce che si infiltra tra i volti di una madre e il suo bambino, svelandone l’intimo senso di un bacio”. E’ un dipinto di genere di grande efficacia emotiva che ci dà conferma come il gran teatro della luce sia sempre presente in tutti gli aspetti della nostra vita, della nostra quotidianità. Come ebbe a scrivere Rudolf Arnheim, citato all’inaugurazione dal curatore Federico Troletti, la luce “resta per l’uomo una delle esperienze fondamentali e più potenti”.

Erminio Morenghi 

Luogo della mostra: musei civici “Gian Giacomo Galletti” Piazza Paola Angela Ruminelli, 1

Orari:

da giovedì a domenica 10-13 / 15-19;

dal 9 ottobre 2023 da giovedì a domenica 10-13/ 15-18

lunedì, martedì, mercoledì chiuso.

Costo del biglietto:

Euro 8 intero

Euro 6 over 65 e tesserati AMO

Euro 3 ridotto da 6 a 19 anni, universitari, guide interpreti e accompagnatori turistici senza gruppo, scuole, accompagnatori diversamente abili

Euro 15 famiglia

Gratis fino a 5 anni, disabili, docenti accompagnatori classi scuole, guide turistiche dell’UE e interpreti turistici in esercizio.

Telefono per informazioni: + 39 338 5029591

E-mail Info: cultura@comune.domodossola.vb.it