UNO SGUARDO SU ALBERTO BURRI

Il Grande Cretto di Gibellina di Alberto Burri, fonte: Wikipedia

VITERBO. Alberto Burri, (1915-1995), è, insieme a Lucio Fontana, l’artista italiano più importante della seconda metà del Novecento. Grande sperimentatore di materiali è un caposcuola del cosiddetto, “Informale materico”, movimento artistico internazionale dell’immediato secondo dopoguerra. I suoi famosi “Sacchi”, opere realizzate con la juta, ci riportano al discorso della seconda guerra mondiale visto che, l’artista umbro, prigioniero in un campo di concentramento americano, è lì che ha iniziato ad avere un rapporto più diretto con l’arte infatti, i sacchi di juta, altro non erano che quelli che venivano lanciati dall’elicottero e che contenevano provviste alimentari, medicinali, ecc…

Altri materiali usati da Burri sono stati: i “Ferri”, i “Legni”, le “Plastiche”, come i “Cellophane”, i “Cellotex”, ecc… Interessanti i, “Cretti”, opere dell’inizio degli anni settanta e portati avanti fino alla metà di quegli anni, spaccature ottenute con grumi di colla vinilica, di caolino, di zinco ed altri materiali che, nel processo di essicazione, si spaccavano, si laceravano, si separavano, sino a creare, appunto, dei grandi cretti. Queste opere ci fanno venire in mente un discorso d’attualità, quello della desertificazione del nostro pianeta e che, in Italia, vede la Sicilia in prima posizione in questo gravissimo e, pericoloso, problema. Proprio in Sicilia c’è un, “Grande Cretto” (foto in apertura, ndr), di Alberto Burri, che va ad occupare l’intera area di Gibellina, nel Belice, nella zona, quindi, distrutta completamente dal terremoto del 1968.

L’intero paesaggio ha, come ricordo del tragico evento, questo enorme “Cretto” bianco, in cemento, dove ci si può camminare dentro e, questa, diventa un’opera di “Land Art” che, vista dall’ alto, assume valenza labirintica.

Possiamo dire che Pollock e Burri sono le punte di diamante dell’Informale: il primo inventa il “dripping”, cioè il colore scolato dall’alto, ha messo i piedi sulla tela, ha trasformato il quadro da schermo, o finestra aperta sul mondo, a puro campo d’azione, a luogo nel mondo. Il secondo è ricorso alla materia bruta, agli oggetti smessi e logorati dal tempo, ai sacchi, ai cenci, ai legni bruciati, alle combustioni plastiche, alle saldature delle lamiere, ai cretti.

’artista umbro riesce a trasformare queste cose, questi oggetti, in pittura. In qualche modo possiamo accostare Burri ad un altro artista italiano, apparentemente molto diverso, Giorgio Morandi.

Le silenziose bottiglie e i vasi che il pittore bolognese accumulava e che sistemava in un ordine compositivo ben preciso, con tanto di polvere, e velature di sporco che poi lui trasformava in variazioni tonali molto efficaci, le ritroviamo anche in Burri: l’amore per la polvere, per il consumato, la patina del tempo, il vissuto. Certo, Morandi intimistico e Burri, crudo.

Alberto Burri è umbro, come Jacopone da Todi e San Francesco, e allora i suoi sacchi, la juta delle sue opere ci riportano al saio, alla scelta del ruvido, del semplice, del naturale, del terrestre. Con questo artista assistiamo, poi, ad un altro fatto interessante: solitamente la pittura finge la realtà, con Burri, invece, è la realtà a fingere la pittura.

AUTORE: ALFONSO TALOTTA