AURELIO AMENDOLA, UN’ANTOLOGIA: MICHELANGELO, BURRI, WARHOL E ALTRI

Andy Warhol – La Factory New York, 1986 ©Aurelio amendola, courtesy of uff. stampa dell’evento

PISTOIA. La mostra AURELIO AMENDOLA | Un’antologia. Michelangelo, Burri, Warhol e gli altri, alllestita sino al 25 luglio alla Fondazione Pistoia Musei, è interamente dedicata al grande “artista fotografo” di fama internazionale.

Questo il comunicato che illustra l’evento.

Nel corso della sua carriera, Amendola ha celebrato l’antico e l’antichissimo, l’avanguardia e il contemporaneo, gli happening degli anni Settanta, gli atelier, le azioni plastiche e spaziali, il dedalo delle amicizie e quello delle collaborazioni internazionali, le grandi mostre, i piccoli musei. Il percorso espositivo prende avvio dall’Antico Palazzo dei Vescovi, ospitando gli omaggi che Aurelio Amendola ha offerto alla città di Pistoia, ai suoi monumenti, ai suoi artisti di ogni tempo: Giovanni Pisano, Marino Marini, Jorio Vivarelli, Giovanni Michelucci, Mauro Bolognini.

La mostra continua nelle sale di Palazzo Buontalenti, affollate da una galleria di ritratti dedicati agli antichi – Michelangelo, Bernini, Canova – in dialogo con le figure più illustri del Novecento – De Chirico, Warhol, Burri, Moore, Guttuso, Parmiggiani, Pistoletto, Paladino, Lichtenstein, Kounellis – tra imponenti paesaggi archeologici, architetture del sacro e vestigia di rovine.

La sua fotografia, vivificata da un uso perfetto del bianco e nero, è vera bellissima opera scultorea, che alla scultura si ispira e alla scultura ritorna. Non un oggetto estetico fine a se stesso, ma un atto poetico: carnale e spirituale, meditativo e seduttivo. Interprete del carisma e del talento umano, tra armonie plastiche, volumi e sensualità.

Michelangelo e Marino Marini

Per Aurelio Amendola, l’antico e il contemporaneo si intrecciano, si sovrappongono, si baciano. Tutto coesiste, tutto si allaccia, tutto si sposa. È l’occhio del fotografo a unificare corpi e volti, tra movenze sentimentali sinuose e persistenti. È l’occhio del fotografo che aderisce alla pelle delle sculture, ora staccandosi ora avvicinandosi, tra ombre vertiginose o bagliori accecanti, unificati dalla sensualità: cifra distintiva dell’opera del Maestro.

Michelangelo troneggia, fin dagli scatti per le Cappelle Medicee (Firenze, Basilica di San Lorenzo, Sagrestia Nuova), da Amendola compiuti nel 1993, che nel 1994 gli valsero il premio Oscar Goldoni per il miglior libro dell’anno: Un occhio su Michelangelo. Da allora, il rapporto col divino artefice è stato inarrestabile. Voce fotografica della sua scultura, per lui Amendola inventa trapassi, cangianze, strisciate, dettagli inaspettati. Ecco Giuliano (1526-1534 circa) dal profilo eroico; il Giorno (1524-31 circa), la cui nuda fluviale schiena monumentale diviene un paesaggio collinare; l’adoratissima celeberrima Aurora (1524-27 circa). Con lei il mausoleo dei Medici si trasforma in festa dei sensi, la tetraggine dolente in poesia degli spiriti. Sostanza intima della luce, santità della carne. E il David (1501-04, Firenze, Gallerie dell’Accademia), proiezione metastorica e iperbole emotiva, come dice Paolucci; il corpo maschile più bello del mondo, tra vittoriosi chiaroscuri; l’Atlante (1525-1530, Firenze, Galleria dell’Accademia), che del non finito è canto d’ombra, massa di corpo che sprofonda, fiorendo.

Anche il trattamento assegnato ai cavalli di Marino Marini è analogo, risolto tra dense insenature della materia che scoppia; ferrosi, ispidi, inaddomesticabili, pieni di turbolenze, lontani dalla regalità. Con essi, Amendola – classico anche nel contemporaneo – recupera la matrice etrusca della fotografia venosa, ammorbidisce le masse, riqualifica l’unità della forma dove sfibrata sfilacciata corrosa. Tra arcaico e modernissimo, accostamenti e imprudenze, nel piacere di rimescolare le carte, di giocare, anche. Di solcare tutte le strade. La fotografia è scultura. La scultura, tutto.

Happening
Con la parola “happening” Aurelio Amendola intende una sequenza fotografica presa nello stesso luogo e nello stesso momento. I soggetti sono quasi sempre degli artisti durante l’esecuzione di un’opera o di una performance, o di tutte e due. A rigor di logica, nel linguaggio dell’arte contemporanea, “happening” ha un significato ben preciso, e leggermente diverso da questo di Amendola: è un’azione programmata da un artista, ma il cui svolgimento è imprevedibile, come ad esempio invitare un dato gruppo di persone ad interagire tra di loro, senza però dare indicazioni sul come essi debbano agire. Di fatto, l’“happening” è un antesignano e un parente stretto della “performance”. Alcune delle sequenze di Amendola di fatto documentano da par suo un “happening” artistico, e il visitatore se ne rende conto a prima vista, mentre altre sono certamente sequenze, ma non testimoniano un’intenzionale azione artistica, bensì semplicemente quel che l’artista fa quando realizza un’opera, o si trova di fronte alla tela bianca, o invece contempla il risultato nel proprio studio. Ma la definizione che Amendola ha dato non è sbagliata. Amendola infatti ha chiamato “happenings” non tanto le azioni degli artisti, ma “ciò che è accaduto tra lui e l’artista”, trasferendo su di sé, come fotografo, quel senso di imprevedibilità che caratterizza ogni “happening”. È un incontro previsto, programmato, ma dal risultato imprevedibile quello che ha legato Amendola e Alberto Burri, per esempio, o Amendola ed Enzo Cucchi: fotografo e artista, e nessun altro. L’artista lavora, o parla, il fotografo guarda, risponde e scatta: ecco allora che ogni suo “happening” diventa non tanto il documento di un’azione, ma il risultato di un incontro tra esseri umani, diversi ma consonanti, come sono diversi il pennello che scorre sulla tela (o la plastica che brucia, o il vetro che si frantuma…) e l’otturatore della macchina fotografica. Dietro c’è sempre la relazione tra esseri umani.

Canova

Nello sguardo che Amendola assegna a Canova, genio venerabile della scultura di tutti i tempi, il registro si placa, si assottiglia, si risolve in contemplazione, come se la maestà del fotografo si inchinasse a tal punto davanti a quella del divino artefice da non volerla neppure disturbare. L’inquietudine ambrata del silenzio tutto avvolge; l’atmosfera è densa e rarefatta, il marmo come pelle e seta. Accenti di commozione, tenerezza limpidissima, levigature; incavi, ciocche, glutei. Castità e beatitudine. Trionfa l’ispirazione venusiana, specie nel corpus dell’Ermitage di San Pietroburgo, da Amendola solcato numerose volte – come autore e come ospite – per esser stato il primo fotografo vivente a esporvi con la personale dedicata a Michelangelo scultore (2007). Ecco la sublime Maddalena penitente (1795-1809), colta di profilo; solenne il braccio abbandonato che si staglia vivissimo emergendo dal nero fondale, neanche fosse un taglio di Fontana: quasi una meridiana, a scandire la linea del tempo, tra la vita di prima e quella di poi. Le ombreggiature delle Tre Grazie (1812-1817) hanno accenti di porcellana, confermando il tocco di Amendola, insuperabile nel trattamento del bianco e nero. Vittoriosi i glutei della Ninfa dormiente (1820-24, Londra, Victoria and Albert Museum), frementi e sodi come quelli del David. Struggenti i gesti di Amore che abbevera le colombe di Venere di Luigi Bienaimé (1845-48), delicato come un poema. Il subbuglio cede il passo alla suavitas, l’incedere adamantino delle osannate statue aeree ci seduce per gesto spiritale. Vera bellissima carne. Carne santissima, come immortale rosa.

È l’azione di Afrodite la bella che viene messa in atto: è lei che si convoca, lei che induce all’arte della gradazione, lei il miracolo che tutto colora, lei che agisce nello splendore del corpo, lei che tutto irradia mediante il suo incedere curvilineo, nell’albeggiare di ogni trasformarsi. Ciò che interessa ad Amendola va in questa direzione. Essere lì, prossimo allo stato nascente delle cose, nel punto esatto del desiderio e del suo schiudersi.

Ritratti italiani

Tra l’inizio degli anni Settanta, sino a oggi, Amendola ha frequentato intensamente la scena artistica italiana, e degli artisti che hanno lavorato in Italia. Una scelta prima casuale e obbligata allo stesso tempo – l’amicizia con Marino Marini – poi sempre più determinata, tanto che Amendola si può annoverare tra i pochi fotografi che hanno ritratto così tanti artisti in questi decenni. Di fatto, anche questa numerosa selezione ha costretto a molte esclusioni, alcune persino dolorose dal punto di vista affettivo.

Ritrarre un artista (il principale soggetto di Amendola, anche se non unico, come testimoniano alcuni ritratti nel salone d’ingresso del Palazzo) è cosa ben diversa dal fotografare la sua opera, così come sono quasi sempre diversi gli artisti dal loro lavoro. Nel ritratto di un artista si vuole sempre arrivare a cogliere l’essenza della creatività, quella scintilla che lo rende diverso dalle persone comuni: questo pensiero a sua volta è un luogo comune, ma reso inossidabile da una tradizione che dura almeno da quando il primo artista ha deciso di farsi un autoritratto, e dunque è inutile tentare un approccio diverso. Tuttavia, all’interno di questa tradizione ritrattistica che vuole identificare il “genio”, l’atteggiamento di Amendola è solo parzialmente accondiscendente, perché dei suoi amici artisti – e forse proprio per questa amicizia che li avvicina – tende a valutare gli aspetti quotidiani, semplici e familiari, piuttosto che l’atteggiamento eroico del demiurgo. Quasi tutti sono presi nel momento del riposo, della meditazione, della riflessione su di sé, e tutti appaiono piuttosto fragili che titanici, più interrogativi che affermativi, più vicini. Prima esseri umani, poi artisti.

Michelangelo. La Pietà

Sulla Pietà di San Pietro (1498-99, Roma, Basilica di San Pietro) il silenzio si fa notte e ogni parola di commento evapora. Le ombre del costato di Cristo sono scorci incendiari come i solchi del grande cretto di Gibellina: inconsolabili. Ma anche la resa dopo la battaglia è inedita. Sfuma in Pax Philosophica e tutto ammanta, mentre il gesto samaritano della madre è onda di spuma, mano purissima, diamante. Lui è spirato, ma Lei è amoroso giglio sorreggente. Come incurante della morte, puro conforto, pura consolazione.

Se al principio furono le Lamentationes – poi le Laudi del teatro medievale, poi le Vesperbild poi il realismo animato dei Compianti, con tutto il recitativo delle espressioni attoriali dove primeggiano le Marie dementate dal dolore – Michelangelo inventa un altro patire; Amendola gli va appresso, lo alleggerisce ulteriormente, come a proseguire un itinerario sentimentale denso di provvidenza. Gli slarghi di intonazione emotiva sono perfetti, perfetto è il marmo che trasuda, tutto accartocciando, sgocciolando bagliori infinitesimi. Perfette le parole di Antonio Natali (Aurelio Amendola. Il primato della luce, 2017): “Aurelio nella sua veduta frontale della Pietà sceglie di dare al candore della pietra un levigato aspetto eburneo quando plasma il corpo esanime di Gesù e di conferire invece alla veste di Maria apparenza di cera che s’accaglia, come si fosse rappresa dopo un calore forte. Ma in quella stessa ripresa frontale, Aurelio sottolinea la grazia soave della Vergine, esibendone il volto giovanile che s’imparenta a una polita perla chiusa fra le valve del velo e della veste, che increspandosi l’abbraccino.”

L’andamento degli sguardi che non si incrocia diviene rotondità, il partimento delle figure si avvita in dolci abbracciamenti di santo spirito. Anche il buio si irradia, la scena diventa ambrata, mentre il dolore si compie senza più spasimo. Le rugosità esaltano la materia, i manti dei panneggi si accavallano, il chiaroscuro diviene spiraliforme, pieno di anse elegantissime. Potenza dei rilievi, drammaturgia, monumentalità. Al titano Aurelio toglie il titanismo, il tormento tribolatissimo; in cambio offre sensualità, sguardo d’elegia, indovinandone la dolcezza. Come a proteggerlo, scioglierlo, semplificarlo.

Bernini

Con gli scatti dedicati a Bernini (Roma, Galleria Borghese), l’impeto sale, la temperatura si surriscalda, si eleva il sinuoso movimento, trova il suo apice nella rapsodia degli allacci, nei volumi della turbolenza: visioni del tremore, vibrati d’aria, modellati tormentatissimi, pure metamorfosi. Bernini, ostinatamente tortile, negli occhi di Amendola subisce un’ulteriore torcitura. Mai come in questi scatti il bianco e nero raggiunge il groviglio perfetto, mai esperimento poteva essere più contrastato, nel virtuosismo di uragano. Ecco David (1623-24) mentre tende la fionda, il ghigno del volto che quasi si infuria, la tensione muscolare dalla potenza di mannaia che si eleva implacabile, guidata dal carisma. Aurelio pare abbrancare una tigre attorno a un vortice, l’energia che si acquatta prima dello slancio finale. Così nel busto dell’Anima dannata (1619, Roma, Palazzo di Spagna); il subbuglio dello sbalestramento luciferino rimanda alle maschere di Wildt, alla loro scheletrita crepuscolare agonia: una lacrimazione marmorea dove tutto è nero, tutto è bianco, tutto è vuoto di vita rabbuiante, tutto è larva in fondo a un vaso, tutto è pozzo scavato nella roccia.

Nell’ermafrodito (Ermafrodito dormiente, 1620 circa), il vento si placa. Tutto si placa, anche Aurelio si placa. Ma poi riprende a furoreggiare. Ecco il Ratto di Proserpina (1621-22), santità della carne che si impone. Proserpina irradia e dispensa le terga a una visione colossale: le braccia volano, i glutei partoriscono il mondo, mentre l’abbraccio violento di Plutone cerca il sole della vita. Ecco Apollo e Dafne (1624-25), trafori e frastagli della materia germinante che esce dai confini. Spettacolare la drammatizzazione offerta da Amendola. Assolute le ombre, accecanti le luci, assoluta l’accelerazione; furibondo l’arresto di sale, furibonda la catabasi mentre il mistero si compie nel suo turbinare inarrestabile. Sembra di sentir gridare le piante che implorano amore e pietà; sembra di sentir gridare Dafne, ninfa regina, ninfa fuggente, casta soave ninfa vorticante.

Ritratti americani

I cosiddetti “ritratti americani” di Amendola scaturiscono da due viaggi negli Stati Uniti, il primo nel 1977, il secondo nel 1986. Il primo era una committenza del rotocalco “Oggi” che ogni tanto pubblicava servizi di personaggi da tutto il mondo (la globalizzazione e il web erano di là da venire…), mentre il secondo viaggio, autonomo, è stato intrapreso espressamente per visitare gli artisti della scena nuovaiorchese, tra cui gli italiani che là vivevano, sull’onda del successo della Transavanguardia.

Nelle foto di Amendola, Andy Warhol appare come il dominatore del contesto americano, se non altro per il numero degli scatti che gli ha dedicato, a distanza di dieci anni tra una “spedizione” e l’altra. Quello che appare è un artista manager di se stesso, incarnazione del self-made man e del sogno americano, anche quando indossa vestiti casual, e a maggior ragione quando si fa fotografare “in posa” all’interno della sua casa altoborghese. Diverso il caso di Roy Lichtenstein, che con Warhol divide la scena americana di Amendola, che si fa ritratte mentre dipinge nel suo grande studio, all’interno di una casa puritana di campagna, nell’East Coast: insiste sulla qualifica di pittore e, al contrario di Warhol, sembra far parte di una delle sue gigantesche opere.

Gli altri, come Julian Schnabel o Francesco Clemente, sono ritratti ancor giovani, in piena lotta per il successo, che in quegli anni stava arridendo a entrambi. Padri e figli.

Architettura: il sacro

Nell’arabescato sentire di Amendola, empatico e sentimentale, non può mancare l’architettura (romanica, gotica, rinascimentale; anche negli omaggi a quella pistoiese), specie nel suo intenso rapporto con la luce. Il soggettario non manca e si avvale di campagne monumentali dedicate al tempo delle grandi cattedrali. Le partiture adottate evidenziano una sintassi che ripete alcuni intervalli; sguinci, visioni laterali, strisciate d’ombra sui muri esterni, colate luminose dall’alto, svettanti esilità.

La gigantesca macchina scenica del Duomo di Milano è ricamo di brina e trina che trasuda il furore mastodontico trasformandolo in un gioco di piani e giustapposizioni, nei movimenti di continue increspature. Il punto di vista scelto da Amendola non è quello delle vetrate, e neanche quello delle facciate; dai camminamenti terrazzati egli sembra insistere sullo statuto geometrico, dove elementi verticali e orizzontali sono trattati con evidenza classica. È tutta un’atmosfera stalagmitica, tutto un fiorire di pilastri guglie pinnacoli archi rampanti costoloni mensoloni statue grondaie. Nicchie e ombreggiature. Il sole gotico si annida dietro la grande rosa. Pace di spirito in opera di cielo.

Poi, ecco la Basilica di San Pietro, romanzo di pietre vive, visione enciclopedica, eterno ardore. La cupola è occhio onniveggente, spazio senza fine né principio dove tutto si congiunge. Ecco le lingue di fuoco che dall’abside scorrono torrenziali. Aurelio si fa testimone di un segreto e lo restituisce, senza permettere alla laicità più cinica di profanarlo. Così, il sacro diventa divino. La carne, voluttà; l’architettura, pietra d’ombra e ristoro, rovina di muschio profumante. Sembra il canto di Marìa Zambrano (L’uomo e il divino, 1970), illuminato e pieno di pietà: “C’è bisogno di un punto di vista amoroso e pietoso, che trasformi il sacro – nel senso, come abbiamo chiarito, di ciò che di oscuro e minaccioso e ancora non parlante è tuttora presente nella storia contemporanea – e lo porti al divino, alla luce della nostra comprensione vivente accessibile attraverso parole che dicano veramente qualcosa dal profondo del sentire.

Architettura: le rovine

Anche negli scatti di “rovine” Amendola rivela la sua unicità. Perché dalle rovine ha appreso l’arte santa del tempo sterminatore, lo ha accettato, lo ha reso amabile. Sono le fotografie stesse a esser diventate rovine. Rovine inconsumabili. Nell’intesa carnale con quanto le circonda, con tutti i sensi in festa. Nel vivo sentire del tempo.

In San Galgano lo struggimento dell’ombra raggiunge l’apice. Poi passa per i Sassi di Matera e lì placa lo sguardo, tra anse tornanti e chiese rupestri. La sua Matera non è quella di Pasolini, sebbene anche in essa dimori la memoria anatolica, l’atmosfera villanoviana remota quanto un presepe, né quella della desolazione, sfranta di povertà analfabetica. La Matera di Aurelio è duttile, ha pietre che parlano infiorate, calli e rugosità che dell’antichità mostrano l’armonia, spuntoni di roccia che non pungono, scalinate innervate verso il cielo. Ammutolita, vastissima, preistorica. La sua Matera è quella delle nuvole.

Poi sa incamminarsi fino alla catabasi del grande Cretto di Gibellina – ombra delle ombre – per omaggiare ancora una volta Alberto Burri, amico di una vita. Il processo di frantumazione della materia – ammuffita, ulcerata, quasi tumorale – qui trova l’assoluto. Struggente la commozione di Massimo Recalcati che ad esso (e ad Amendola) dedica pagine nobilissime. Il buio inarchiviabile da volgere in pensiero danzante, la perdita estrema in pietas, gratia plena della poesia, vento flessibile della bellezza, rosaspina di strazio dove la morte non ha l’ultima parola; che non può essere solo l’incessante ineluttabile spettrale lavoro del lutto a dare un senso ai nostri giorni ma anche la preghiera della luce che germoglia. Per i nostri morti / che fanno della morte un luogo abitato, come nei versi di Mariangela Gualtieri. Perché il già vuoto divenga vuoto con la grazia attorno.

L’epicentro del dramma è sempre lì, sempre lì il sisma vivo; ma quel sempre lì viene ribaltato col dono della compassione. Come il cretto di Burri non mette in scena una semplice evocazione monumentale del trauma, l’occhio di Aurelio non è quello del boia che infierisce. Esso solleva dal disastro, non contribuisce all’incenerimento, non rincara la dose. La addolcisce. La ferita si impasta di dolcezza, si volge in luce dopo la pena. Mutando il buio in rose.

Giovanni Pisano

Oltre ad aver solcato tutta la statuaria rinascimentale, e ad aver dato vita a una sterminata Galleria di Uomini Illustri dell’arte contemporanea, la frequentazione con i temi dettati dall’urbanistica cittadina e con le maestose presenze che nel tempo hanno illuminato l’anima di Pistoia, non poteva – naturalmente – mancare. Per Aurelio Amendola, pistoiese doc, questa relazione ha precedenti remoti, realizzandosi nell’incontro con la scultura di Giovanni Pisano, con quella di Marino Marini, con una selva di amici e sodali di tutte le generazioni, con lo spirito della città.

Al principio fu l’impatto con Giovanni Pisano, che prese vita nell’impresa del pulpito di sant’Andrea (1301 circa), fotografato a partire dal 1968 e poi ripreso talmente tante volte da averne perso il conto. Sorta di antecedente michelangiolesco (tanto da far persino supporre un debito di Buonarroti, per allacci dei corpi ed eleganze protomanieriste), il complesso scultoreo presenta già i sintomi del vibrato caro ad Amendola; lo stesso che negli anni a seguire ne avrebbe modellato la cifra distintiva.

Il programma iconografico (già studiatissimo, la cui organizzazione riprende l’actio retorica del pulpito del Battistero di Pisa e del Duomo di Siena; capolavori di Nicola Pisano, padre), viene affrontato per via drammaturgica, in perfetta sintonia con l’alto linguaggio della tragedia; come se, fin da questa prova, Amendola intuisse la strada – classica per misura, anticlassica per emotività – che avrebbe solcato per tutta la vita. Indugia su particolari, Aurelio; il volto scavato di Cristo, il costato dai solchi accentuati, le ossa che sporgono con mestizia, le pieghe cordonate delle maniche. Ma anche il subbuglio, la pietà, la delicatezza. Si insinua nelle ombre, addensa i gesti, ne carpisce il pathos, specie nei rilievi della Strage degli innocenti. Rughe, intervalli, torsioni, asimmetrie, striature. La scena scolpita diviene una quinta teatrale dove si innerva il dramma, mentre la massa delle figure si allaccia in sinuoso movimento, riempiendo ogni vuoto o decantandolo nell’ombra. Capitelli corinzieggianti, leoni vivissimi, telamoni lucumonici, una selva di colonne. Non un itinerario didattico o didascalico, ma uno sguardo tattile, con accenti vivissimi, di struggimento e melodia.

Marino Marini

Lungo e intenso il sodalizio intrapreso da Aurelio Amendola con Marino Marini, compagno e amico di un’intera esistenza. Inizialmente, Marino era recalcitrante (come i suoi cavalli…) a qualsiasi proposta fotografica, tanto per le opere che per la vita personale. Poi si sciolse, si convinse, accettò il Maestro come un amico di sempre. A partire dal 1972 Amendola gli dedicò infiniti scatti, rinnovandoli nel tempo in un sodalizio divenuto leggendario. Aurelio lo ritrae mentre va scalpellando la pietra con gesti inconsumabili, antico fra gli antichi, attento come un offciante. Poi mentre passeggia per le vie cittadine con la famiglia, scrutando le pietre. Poi, naturalmente, lo celebra nelle opere alloggiate in città.

Ben nota la passione dell’artista per i cavalli, soggetto unico delle sue creazioni plastiche, autoritratti allo specchio interiore. Marino ripercorre tutta la filiera dell’archetipo equestre, lo evolve in tutte le sfumature, tra dense insenature della materia travalicante. Remota è la saldatura tra cavallo e cavaliere, glorificata in ogni dove fin dai tempi più antichi e incentrata sugli atti della dominazione (dai monumenti di età romana agli acquamanili medievali; dai cavalli-scheletro dei Trionfi della Morte ai cavalieri dell’Apocalisse; dai mestieri delle armi ai caroselli piumati per giostre di imponenza, fino all’urlo di Guernica). Ma i cavalli di Marino dismettono il titanismo, il dominio, persino l’idillio naturalistico. I suoi, sono cavalli longobardi senza paramenti, ferrosi di materia ispida, inaddomesticabili, pieni di turbolenza espressiva; romantici e trasognanti, ululanti alla luna con aria strampalata, lontani dalla retorica della regalità. Talvolta, rocciosi come dinosauri. Amendola intuisce l’amico alla perfezione; recuperando la matrice arcaica di una fotografia venosa, ammorbidisce le masse, le ricompone, riqualifica l’unità della forma persino dove tribolata sfibrata tarlata sfilacciata corrosa. Ancora una volta, la riadatta alle radici della tradizione classica. E così, indovinando il futuro.

L’anima della città

Aurelio Amendola celebra la piazza della sua Pistoia scegliendone il silenzio. Quasi un silenzio metafisico, in omaggio a De Chirico: conosciuto, frequentato, fotografato. La sua non è la città brulicante di arti e mestieri, di insegne e stradine artigiane, sebbene si intuiscano sullo sfondo: inerpicate aggrovigliate contorte, allacciate di movimento e tortuosità. Non è neppure la Pistoia etrusca, romana, altomedievale prima e medievale poi, illustrata secondo citazioni e slittamenti, stratificazioni e periodizzazioni, nella tradizione di ogni muscolo urbano.

La sua è la città dell’ombra sui campanili, delle vedute aeree dal Battistero, dove le balaustre si baciano con le nuvole. Marmi lastricati che si irradiano, basamenti di pietre asciutte. I disegni pavimentali dei portici, le fasce lineari in bicromia, le arcate dei loggiati; monofore irregolari, tarsie, nicchie. L’amore per l’austero modellato discende dalle esperienze sulle chiese romaniche del territorio. Fregi d’alta epoca, facciate spoglie a monocromo, materiali lapidei, cinte murarie, cappelle monasteri pievi: quasi un censimento della pietra, quasi un archivio da cui si diramano tutti gli esiti figurativi, quasi un repertorio. Poi, tra le insenature del romanico urbano, si sostanzia in un lessico figurativo compiuto e robusto. Nel godimento degli anfratti trova la soluzione, per distillato emozionale.

La Pistoia di Aurelio è un corpo di donna accarezzato con occhi di velluto. Il tratto argenteo della municipalità – antico e nobile di a ondi remotissimi – si stempera in distesa pianeggiante, addolcito dalla severità primaria. La sua Pistoia è città ricamata, radiante, gentile: un libro d’ore dai rintocchi battesimali dove il periodare della luce si scala nei ritmi delle stagioni. L’immagine si anima, sussurra, si di onde: senti l’afa di luglio quando sta per piovere, l’ombra rannuvolata sotto ai porticati, la frescura di cantina che all’improvviso scroscia come uragano. Senti la gloria del disteso mezzogiorno, la sua canicola. Pistoia lucis porta, porta aurea. Appartata accurata civilissima. Una romanza di pietre vive, tra sguinci e torciture. Bellissima di spazio aereo, quasi che fosse musica.

Artisti e sodali

Oltre all’intensa frequentazione con i temi artistici dettati dall’urbanistica cittadina, numerosi sono i ritratti fotografici da Aurelio Amendola eseguiti “dal vivo”, nelle infinite scorribande delle sue amicizie, allacci, collaborazioni. Ecco Iorio Vivarelli, Roberto Barni, Gianni Ru , Umberto Buscioni, Giovanni Michelucci, Mauro Bolognini, César Baldaccini (marsigliese di origine ma pistoiese di adozione), Yves Montand (al secolo Ivo Livi, nato a Monsummano Terme, provincia di Pistoia). Sono volti ritratti dalla potente maestà, che alla tradizione fisiognomica aggiungono note emotive: colorendo, addolcendo, diluendo, intensificando.

Nelle ricapitolazioni di un intero percorso estetico, spirituale e creativo, innumerevoli le esperienze di Amendola anche all’interno dei più diversi contesti di Arte Ambientale. Monumentale la campagna fotografica dedicata alla celeberrima Fattoria Celle di Giuliano Gori (in località Santomato di Pistoia), antologia scultorea internazionale colma di epiche visioni, giardino enciclopedico, trattato filosofico, bosco di segni, vivaio futuistico, scenario geografico, geologico, storico e culturale stratificato da ogni sorta di sedimento.

Aurelio tutto coglie e tutti accoglie, muovendosi tra amici: la camera di san Francesco di Nicola De Maria, l’uliveto di Ian Hamilton Finlay, la voliera di Folon, le fontane dell’amore di Hossein Golba, i labirinti di Robert Morris uniti alle sindoni melanconiche di Claudio Parmiggiani, le dormienti meditabonde di Olavi Lanu che sembrano levarsi dai muschi del sottosuolo, a presidio della foresta. Come per armonioso silenzio etrusco dai boschi ombrosi, nella progenie delle selve. E all’amico Alberto Burri (altro sodale di una vita), non lesina scatti ulteriori, proprio al suo dinosauro di ferro, il monumentale Grande Ferro Celle che introduce alla visita, la cui struttura, vertebrata come lo scheletro di un dirigibile (così dice Bruno Corà) resta ariosa di leggerezza, vela nel vento del verde circostante.

Gli assoluti Paola Goretti

Gli Assoluti di Amendola: frammenti di antiquaria, estratti, supreme concentrazioni. Dai particolari eleganti della tradizione classica, i composti divengono astratti, non più riconoscibili, privi dell’evidenza del modellato. Forme senza forma, pronte ad aggiungere alla vista e al tatto un senso ulteriore che le unisce e trascende. Qualità atmosferiche indimostrabili. Grazie danzanti, rose d’alta epoca.

Prima vennero I Capricci di Goya, le Stagioni di Vivaldi, le Macchine Celibi di Duchamp, le Marilyn di Wharol, le Combustioni di Burri. Poi, Gli Assoluti di Amendola, sequenze narrative senza narrazione. Note musicali, concrezioni purissime, infiorescenze; densità fotografiche ricavate a forza di levare. Direbbe Michelangelo…

Una mano, un gluteo, un occhio, l’incavo di una schiena, una posa languidissima, un avviluppo, ora mutati in altro. Ossia in trapassi cangianze strisciature, addensamenti di alveoli e nitori di specchio, bianchi accecanti di melodiose lucentezze, tratteggi satinanti innervati tra membrature architettoniche, ghirlande conchiglie e rilievi ricavati da spigoli di mensole. Per armonioso silenzio etrusco, nella progenie della specie, subbugli movimenti delicatezze. Trafori e frastagli della materia germinante. Anse e pertugi, incastri e a ondi. Lavorazioni delle tessiture, slarghi e restringimenti, intonazioni sentimentali. Confini torciture allacci. Sinuosità ellissi sbiechi. Pieghe cordonate. Rughe, intervalli della materia, torsioni, asimmetrie, striature. Ombreggiature, soprattutto. Insenature, baie come di paesaggio. L’incedere curvilineo, nell’albeggiare creaturale di ogni trasformarsi. In loro vibra il silenzio della pietra. Il marmo puro, come se fosse seta.

Gesti calligrafici di un copista amanuense calato nella grande abbazia del mondo cava e risuonante, Gli Assoluti di Amendola sono megaliti del tempo, vivi nel codice dei sensi. Rocce calcaree, concrezioni. Nervi frementi, vene pulsanti dall’andamento imprevedibile, palpitazioni. Radiosi, nell’erotismo della pienezza. Una festa gentile delle onde. L’inizio di un altro incominciare.

NOTA. Testo e foto: courtesy of uff. stampa dell’evento